Io resto, solo con un nome nuovo e un po’ più di respiro

Le utime dal diario

La lella
La lellahttps://www.diariodiunalella.it
Lella fin da piccola, ho sempre seguito questo motto: "sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo". Credo che la sessualità e l’identità siano elementi soggettivi, tanto che qualsiasi regola non sarebbe mai quella perfetta. Nessuno di noi è solo una cosa e non esiste una definizione che possa andare bene sia per me che per te. A dire il vero, esiste un’etichetta in cui mi sento perfettamente a mio agio ed è proprio l’essere me stessa, perché è fatta su misura per me, racchiude tutto ciò che sono ed è pronta ad accogliere ciò che sarò.

Non è stata una decisione presa all’improvviso, di quelle che arrivano in una notte di insonnia quando ti dici “vabbè, da domani cambio tutto”. No. È stata una cosa lenta, ragionata, una specie di maratona mentale fatta di mille tentennamenti, un passo avanti e due indietro. Ogni tanto me lo chiedevo, mentre guardavo la pagina bianca sullo schermo o i vecchi post del blog: “ma davvero devo cambiare nome? Davvero serve?”. E subito dopo mi rispondevo con quel tono mezzo rassegnato e mezzo ironico che ormai mi porto addosso da anni: “eh sì, pare de sì”.

Ci ho messo mesi, forse anni, a capirlo. A rendermi conto che quel nome con cui avevo iniziato a pubblicare mi stava stretto, non perché non mi appartenesse più, ma perché era diventato una specie di etichetta appiccicata sopra ogni cosa che scrivevo. Un marchio che la gente leggeva prima ancora del titolo, e da lì partiva già con un’idea in testa. Ecco, questa è la parte che mi ha sempre disturbata: la sensazione che i lettori si facessero un’idea di me prima ancora di leggere le mie parole. In Italia funziona così — lo sappiamo tutti. Prima il nome, poi il testo. Prima la curiosità su chi scrive, poi (forse) la storia che ha scritto.

Un giorno, durante un pomeriggio qualsiasi di quelli pieni di file da aggiornare, email da rispondere e tab del browser che si moltiplicano come conigli, mi sono fermata. Ho fissato la home del sito e mi sono detta: “basta, serve aria”. Non era solo una questione di immagine, ma proprio di respiro. Avevo bisogno di uno spazio più neutro, di un nome che non portasse con sé tutte le sovrastrutture che nel tempo mi si erano incollate addosso: l’identità, le etichette, le categorie, le aspettative. Tutto quel rumore di fondo che, invece di amplificare la voce, la copre.

Così è nata Allison Lister.
Un nome semplice, pulito, quasi trasparente. L’ho scelto perché non fa domande, non chiede spiegazioni, non ti piazza in una casella appena lo leggi. Suona neutro, come una finestra aperta. Quando l’ho pronunciato per la prima volta ad alta voce mi ha fatto un effetto strano, come se stessi parlando di qualcun’altra. Poi, piano piano, ho cominciato a sentirmelo addosso. È entrato in sintonia con me in silenzio, senza forzature, come quei vestiti che all’inizio ti sembrano troppo larghi ma poi scopri che ti ci muovi meglio.

Ovviamente la decisione non è stata accolta da tutti con la stessa serenità. Qualcuno ha alzato il sopracciglio, qualcuno ha detto “ma che te serve?”, e qualcun altro ha pensato che fosse una trovata di marketing. No, niente marketing, niente ruffianate. Solo la voglia di scrivere senza che il mio nome diventasse la prima cosa di cui si parla. Quando uno compra un libro non dovrebbe chiedersi chi è l’autore, ma se la storia vale il tempo che ci passerà dentro.
Io voglio che le mie storie viaggino così: leggere, autonome, senza etichette appese al collo.

Naturalmente non significa che butto via tutto quello che ho costruito. Anzi. Diario di una lella resta dov’è, con tutto il suo bagaglio di ironia, pensieri sparsi e parole dette a metà. Quello è il mio spazio personale, quello dove mi permetto di dire le cose come vengono, anche quando non ho niente di importante da dire. Allison Lister invece è l’altra faccia della medaglia: quella che scrive, pubblica, costruisce progetti, si sporca le mani con le parole e le fa camminare nel mondo.
Due percorsi, una sola voce.

Mi sono accorta che negli ultimi tempi scrivere col mio vecchio nome era diventato un esercizio di resistenza. Ogni frase sembrava dover superare un controllo doganale: “questa posso dirla?”, “questa suona troppo personale?”, “questa sembra polemica?”. Una fatica inutile che ti toglie spontaneità. E io di spontaneità ne ho bisogno come dell’aria. Voglio poter scrivere di un tramonto e di un aggiornamento di plugin WordPress con la stessa libertà, senza pensare se una cosa “conviene” o “funziona bene in termini di reach”.
Lo so, sembra una sciocchezza, ma oggi pure un titolo deve piacere agli algoritmi. E invece io, sinceramente, di fare la cortigiana di Instagram e di X mi sono un po’ stufata.

Facebook ormai è come una riunione di condominio: se parli troppo ti zittiscono, se non parli ti chiedono perché. Instagram è un teatro d’ombre dove la gente filtra anche i pensieri. X è diventato un’arena, e YouTube… beh, YouTube è come un mercato del sabato mattina: se non urli, non ti sente nessuno.
Far crescere una pagina in questo contesto è un’impresa, e io non ho più vent’anni né la pazienza di ballare con le tendenze del giorno. Ho provato, giuro. Ho passato ore a montare video, sistemare tag, scrivere descrizioni perfette, e poi arrivava solo un commento tipo “bella la maglia”. Eh grazie, ma guarda che era un video di otto minuti in cui parlavo di letteratura, non di moda.

Per mesi ho cercato di capire dove stessi sbagliando. Ho provato a cambiare tono, orario, linguaggio. A un certo punto mi sono detta che forse il problema non ero io, ma l’idea stessa di rincorrere un pubblico che nel frattempo correva da tutt’altra parte. Così mi sono fermata e mi sono chiesta: cosa voglio davvero? Voglio scrivere, e basta. Voglio che le parole tornino a essere l’unica cosa che conta, non i like, non le impression, non gli algoritmi. E per farlo dovevo togliere di mezzo tutto ciò che distrae, a cominciare dal nome che portava con sé troppe storie vecchie.

Non sto cercando di cancellare il passato.
Semplicemente, sto cercando di liberarlo.
Ci sono momenti in cui serve fare spazio, buttare l’aria stantia e aprire le finestre.
Allison Lister, in fondo, è questo: una finestra aperta.

Mi ricordo quando ho aggiornato per la prima volta la bio del profilo. Ci ho messo mezz’ora per scrivere una frase di dieci parole. Continuavo a cancellare e riscrivere, come se ogni parola avesse un peso specifico, come se da quella riga dipendesse la mia identità. Poi ho lasciato perdere e ho scritto: “Allison Lister – scrivo storie, a volte troppo lunghe, quasi sempre vere.”
E lì mi sono rilassata. Era tornata la mia voce, quella senza filtri, quella che non cerca di piacere, quella che racconta le cose come vengono.

Molti pensano che cambiare nome sia un modo per nascondersi. Per me è stato il contrario: un modo per uscire allo scoperto. Per mostrare cosa resta quando togli tutto il superfluo. Non volevo un’identità nuova, volevo solo alleggerire la vecchia. Non volevo un personaggio, volevo spazio.
E guarda caso, da quando l’ho fatto, mi è tornata pure la voglia di scrivere ogni giorno. Non che prima non scrivessi, ma era come se avessi sempre qualcuno sulle spalle che mi diceva “attenta a come lo dici”. Adesso no. Se una frase mi esce sbilenca, pazienza. Se un pensiero è scomodo, lo tengo lo stesso. Se un post non piace, pazienza pure quello.

E poi, diciamocelo, cambiare nome nel 2025 è più complicato di quanto sembri. Devi aggiornare i domini, gli account, i loghi, le bio, gli header, le email, persino i metadati dei PDF dei libri. Mi sono ritrovata a passare un’intera giornata a correggere le firme digitali, e a un certo punto ho pensato: “ma chi me l’ha fatto fa?”. Poi mi sono guardata allo specchio, ho riso e mi sono detta “mo che inizi, lo finisci”.

Alla fine ce l’ho fatta. Ora su tutti i miei canali c’è scritto Allison Lister.
E nonostante la fatica, ogni volta che lo vedo scritto da qualche parte mi viene un mezzo sorriso. Non so se è orgoglio o semplice sollievo, ma so che è la sensazione giusta.
Ogni tanto qualcuno mi scrive per chiedere se “Allison Lister” è un nome d’arte. Io rispondo sempre con la stessa frase: “è un nome di libertà”.
Perché è proprio quello che rappresenta: la possibilità di muoversi senza dover spiegare, di scrivere senza dover giustificare, di pubblicare senza sentirsi in dovere di essere “qualcosa”.

Non mi aspetto che tutti capiscano.
Qualcuno dirà che esagero, qualcun altro penserà che sia un dettaglio. Ma a me i dettagli interessano, eccome. Sono i dettagli che fanno le storie, le persone, i cambiamenti.
E questa volta il dettaglio era un nome.

Ora che la transizione è fatta, mi sento più in equilibrio. Forse è solo una sensazione passeggera, ma mi piace pensare che questo sia il mio modo per ripartire. Non una rivoluzione, più una riconciliazione. Con la mia voce, con il mio lavoro, con chi ha avuto la pazienza di restare fino a qui.
Scrivere non è mai stato semplice, ma non voglio che diventi una corsa a ostacoli. Voglio che resti un gesto naturale, come respirare, come preparare il caffè la mattina o sistemare una frase finché suona bene.

E sì, lo so, non sarà il nome a farmi pubblicare di più, né a farmi vendere più libri. Ma almeno ora ho la sensazione di essere tornata in linea con me stessa, e questo, credetemi, vale più di qualunque metrica.

Quindi eccomi qua.
Con un nome nuovo, un’identità più chiara, e una voglia rinnovata di scrivere senza filtri.
I progetti continueranno, i libri pure, e Diario di una lella resterà il mio piccolo caos personale dove finisco sempre per dire più di quanto vorrei.
Ma adesso tutto ha un suo ordine, anche dentro il disordine.

Se siete arrivati fin qui, grazie.
Davvero.
Perché leggere fino in fondo, di questi tempi, è un atto di fiducia.
E io, di quella fiducia, ne farò tesoro.

Io resto, solo con un nome nuovo e un po’ più di respiro.

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