Troppe lettere e poca sostanza: riflessioni di una lella sull’acronimo LGBT

Le utime dal diario

La lella
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Lella fin da piccola, ho sempre seguito questo motto: "sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo". Credo che la sessualità e l’identità siano elementi soggettivi, tanto che qualsiasi regola non sarebbe mai quella perfetta. Nessuno di noi è solo una cosa e non esiste una definizione che possa andare bene sia per me che per te. A dire il vero, esiste un’etichetta in cui mi sento perfettamente a mio agio ed è proprio l’essere me stessa, perché è fatta su misura per me, racchiude tutto ciò che sono ed è pronta ad accogliere ciò che sarò.

Quando ho iniziato a sentire parlare di comunità LGBT, era un’epoca diversa. C’era un senso di urgenza, di compattezza, quasi un bisogno vitale di nominarsi per non sparire. “Lesbiche, gay, bisessuali, trans”: quattro lettere, un’unione che aveva lo scopo di dare visibilità, di far capire che esistevamo davvero e che non potevamo essere ignorati o messi da parte come se fossimo anomalie. Quelle quattro lettere erano un faro, un’etichetta che finalmente non era insulto ma bandiera, che ci permetteva di trovare spazi, di difenderci da un mondo che troppo spesso ci voleva muti e invisibili.

Poi, col passare del tempo, quell’acronimo ha iniziato a gonfiarsi. Si è allargato, stirato, ingrandito fino a diventare un serpente che mangia se stesso: LGBTQIA+, e ancora oltre, con nuove sigle che saltano fuori ogni mese come funghi dopo la pioggia. Tutto è diventato “queer”, parola ombrello che in teoria doveva includere tutti e in pratica ha finito per diluire tutto. Perché, chiariamoci, se metti dentro troppa roba, il rischio è che non rimanga più niente di chiaro.

E qui arriva la mia riflessione personale, che nasce dalla mia esperienza da lella, dalle giornate passate a cercare spazi, luoghi, comunità, e dal constatare come spesso quella che doveva essere “casa” si trasformi in un centro commerciale dove ognuno prende quello che vuole e nessuno paga il conto.

Perché, a furia di voler includere tutto e tutti, il rischio è che a perdersi siano proprio le lesbiche. Siamo passate da essere il primo pezzo dell’acronimo, la “L” in bella vista, a sentirci quasi un optional, una lettera che c’è ma che non conta più di tanto. Tutto diventa “diversità”, tutto diventa performance, tutto diventa moda. E in questo mare di identità che si accumulano, il fatto di essere lesbica, donna che ama altre donne, sembra quasi banale, come se non fosse più abbastanza per giustificare l’esistenza di spazi dedicati.

E invece di spazi ne servirebbero eccome. Perché la vita lesbica ha dinamiche specifiche, ha un suo linguaggio, ha una sua storia. Non è la stessa cosa che essere gay, non è la stessa cosa che essere bisex. Non è superiore, non è inferiore, è semplicemente diversa. Ma se continuiamo a sommergerla di altre etichette, a metterla nello stesso calderone indistinto di “identità fluide, alternative, arcobaleno”, ecco che sparisce.

Lo vedo nella pratica quotidiana. Cerchi un locale lesbico? Non esiste quasi più. Trovi “spazi queer”, aperti a tutto e a tutti, ma se una lesbica chiede uno spazio solo per donne che amano donne, subito scatta l’accusa di esclusione, di chiusura, di “vecchio femminismo arrabbiato”. E allora ci ritroviamo in un paradosso assurdo: siamo nate come comunità per combattere l’omofobia, e finiamo per non poter nemmeno dire “voglio stare tra donne lesbiche” senza venire tacciate di essere retrograde.

Non è nostalgia, è realtà. Io non ho nessun bisogno di una sigla sempre più lunga per sapere chi sono. So cosa significa amare una donna, so cosa significa non avere alcun interesse verso gli uomini, so cosa comporta vivere in un mondo che ancora ti guarda storto se baci la tua compagna in pubblico. E questo, credetemi, basta e avanza per dire che serve una comunità, serve una rappresentanza, serve una voce.

E invece cosa succede? Che l’acronimo diventa un carrozzone politico-mediatico dove ognuno spinge la propria agenda. Si parla più di marketing che di diritti, più di “pride month” sponsorizzato da multinazionali che di realtà di chi, ogni giorno, si scontra con discriminazioni concrete. E io, che dovrei sentirmi “inclusa”, in realtà mi sento cancellata. Perché quando tutto è queer, niente è lesbico.

Katy, che mi conosce bene, l’altro giorno mi ha detto: “Ma perché te la prendi così, non ti basta far parte di un tutto più grande?”. E io le ho risposto che no, non mi basta. Perché se quel tutto più grande si dimentica delle lesbiche, allora non è casa, è un hotel di passaggio. E in un hotel puoi stare una notte, due, ma non ci costruisci una vita.

Io non sto dicendo che l’acronimo debba tornare piccolo e rigido, che ci si debba chiudere o escludere. Sto dicendo che bisogna riconoscere il rischio. Quando allarghi troppo il campo, finisci per perdere il centro. E il centro, almeno all’inizio, era molto chiaro: lesbiche, gay, trans e bisessuali che cercavano di sopravvivere e di ottenere diritti concreti.

Poi certo, ognuno può aggiungere la propria identità, ci mancherebbe. Ma non a scapito di chi già c’era. Non cancellando spazi lesbici, non rendendo impossibile parlare di noi senza sentirci dire che stiamo escludendo qualcun altro. Perché il punto è semplice: se non possiamo più avere nemmeno un gruppo tra donne lesbiche senza che qualcuno si offenda, allora non siamo più comunità, siamo solo un’etichetta di marketing.

E forse è anche per questo che tante lesbiche si stanno tirando fuori. Perché a forza di sentirsi invisibili dentro la loro stessa sigla, preferiscono camminare da sole. Lo vedo nelle conversazioni, nei blog, nelle associazioni che chiudono. Ci siamo stancate di chiedere permesso nella casa che doveva essere nostra.

Certo, ci si ride pure sopra. L’altro giorno scherzavamo con un’amica: “Che viene dopo la Q, la Z? Lesbo-Zorro, con tanto di mantello?”. Perché a un certo punto l’ironia è l’unico modo per non esplodere. Però la domanda resta seria: quante lettere ancora servono per sentirsi inclusi, e quante bastano per cancellare chi c’era dall’inizio?

Io non ho risposte definitive, ma so una cosa: se continuo a scrivere, a raccontare, è proprio perché non voglio sparire sotto un acronimo che ormai sembra più una password Wi-Fi che una comunità. E magari qualcuno, leggendomi, capirà che rivendicare spazi lesbici non è odio verso gli altri, ma semplice esigenza di esistere, senza doverci giustificare ogni volta.

E allora, finché avrò voce, continuerò a dirlo. Con ironia, con romanaccio, con tutta la fatica di chi ci crede ancora: lesbica non è una lettera, è una vita.

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