L’anestesista, l’ariete e la voglia di mollare tutto

Le utime dal diario

La lella
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Lella fin da piccola, ho sempre seguito questo motto: "sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo". Credo che la sessualità e l’identità siano elementi soggettivi, tanto che qualsiasi regola non sarebbe mai quella perfetta. Nessuno di noi è solo una cosa e non esiste una definizione che possa andare bene sia per me che per te. A dire il vero, esiste un’etichetta in cui mi sento perfettamente a mio agio ed è proprio l’essere me stessa, perché è fatta su misura per me, racchiude tutto ciò che sono ed è pronta ad accogliere ciò che sarò.

Quando comincio a scrivere così, a ruota libera, senza filtri, di solito è perché qualcosa dentro si è spezzato oppure si sta per spezzare e io ho bisogno di rimettere i pezzi sul tavolo, guardarli uno per uno e capire se vale ancora la pena incollarli. Ecco, oggi è una di quelle giornate. Non è la fine del mondo, ma è quel momento in cui la somma delle crepe diventa qualcosa che non puoi più ignorare. Anche se fuori tutto sembra reggere.

La verità è che non parlo molto della mia relazione da un po’. Non perché sia tutto rose e cioccolatini, anzi, di solito è proprio quando va bene che scrivo poco. Quando c’è pace, la penna riposa. Ma oggi no. Oggi scrivo perché sto iniziando ad avere dubbi seri, quelli che ti si infilano tra una frase e l’altra mentre parli con lei, mentre scegli cosa cucinare, mentre stai per addormentarti. Quelli che ti costringono a mettere in discussione ogni piccolo gesto, anche quelli che prima sembravano normali.

Convivere con qualcuno che non riesce a comunicare è faticoso. Non è che litighiamo, non è che ci insultiamo, ma è come se vivessimo su due binari che non si incontrano mai. E io lì ci sono già passata, con Inès, e non è un bel ricordo. Almeno Inès aveva la decenza di essere apertamente tossica, con tutta la sua manipolazione e la teatralità da regina del dramma. Ma adesso è diverso. Più sottile, più silenzioso. E forse proprio per questo mi pesa ancora di più.

Ho l’impressione di stare reggendo da sola una baracca che non ho nemmeno scelto di costruire. Mi sento sfinita. Mi manca la voglia di fare lo sforzo, di dare il beneficio del dubbio, di provare a spiegarmi ancora una volta. Perché quando vedi che l’altra persona non afferra, non coglie, non cambia, ti passa pure la voglia di parlare. E allora taci. E dentro ti asciughi.

Poi ci sono gli episodi che ti fanno scattare. Tipo oggi. Oggi avevo appuntamento con l’anestesista per la mia operazione alle tonsille. Una cosa che mi porto dietro da più di un anno, con infezioni ricorrenti, febbre, debolezza. Sapevamo entrambe che era importante. Che ci sarebbero stati spostamenti, incastri. Che io, emotiva come sono, non ci riesco ad andarci da sola. Però lei aveva detto che c’era. Che mi avrebbe accompagnata.

Nel frattempo muore sua nonna. Novantotto anni. Sì, è triste. Sì, era un evento forte. Ma non è arrivato da un giorno all’altro. Era nell’aria da tempo. Quando è tornata, dopo qualche giorno via, io l’ho aspettata. Senza pretese. Solo con quel bisogno piccolo e normale di sentirla rientrare, di vederla rimettere il cappotto sull’attaccapanni, magari di ricevere un abbraccio. E invece niente. Nessun contatto. Mi dice solo “mi sei mancata“. Che è giusto, ma è anche il minimo sindacale.

La sera prima dell’appuntamento, le chiedo se ce la fa ad accompagnarmi. E mi risponde così, secca: “avrei dovuto fare il taxi“.

Ti viene da ridere, se non fosse che ti si chiude lo stomaco. Io mi sarei pure organizzata. Con mia la mia famiglia, con il tram, anche con un Uber preso con tre app diverse. Ma era stata lei a voler venire. A dire che mi avrebbe accompagnata. E ora che mi fa sentire in colpa? Che butta l’ironia passiva come se fosse una battuta riuscita male? No, grazie. Me lo prendo da sola quel tram, e amen.

Poi ci sono le altre cose. Quelle che non dici mai ad alta voce perché sembrano piccole, ma quando si accumulano diventano macigni. Il sesso, per esempio. Che non c’è da mesi. Che quando provo ad avvicinarmi vengo respinta. E non è solo una questione fisica. È che io, che sono ariete, che ho una dignità grande come un grattacielo e un orgoglio che potresti montarci sopra un romanzo, non riesco più a fingere che non mi ferisca. Non posso fare finta che non lo vedo, quel vuoto tra di noi. Quel silenzio che non è pace, ma gelo.

E il paradosso è che tra un mese abbiamo il primo appuntamento per la PMA. Sì, ci stiamo provato. C’è stato un tempo in cui questo figlio lo volevamo insieme. Ma adesso non so più. Non so se lo voglio con lei. Non so se lei lo vuole davvero. Non so se, in fondo, siamo capaci di crescerlo insieme. Però io lo voglio ancora, quel figlio. Almeno provarci. Almeno sapere che ci ho provato.

Magari anche da sola. Ma intanto scrivo. E nel mentre mi chiedo se davvero devo sempre essere io quella che ci crede ancora.

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