Il cavallo non rispondeva. E nemmeno io.

Le utime dal diario

La lella
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Lella fin da piccola, ho sempre seguito questo motto: "sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo". Credo che la sessualità e l’identità siano elementi soggettivi, tanto che qualsiasi regola non sarebbe mai quella perfetta. Nessuno di noi è solo una cosa e non esiste una definizione che possa andare bene sia per me che per te. A dire il vero, esiste un’etichetta in cui mi sento perfettamente a mio agio ed è proprio l’essere me stessa, perché è fatta su misura per me, racchiude tutto ciò che sono ed è pronta ad accogliere ciò che sarò.

Succede che ti svegli alle sei e dici: vabbè, è solo un sogno. Ma poi scendi dal letto, ti guardi allo specchio e hai la stessa faccia di quando perdi il cellulare nella borsa e invece stavi solo tenendo in mano le chiavi. Occhi un po’ strizzati, collo teso, la sensazione di aver corso. E invece eri ferma. Eri a letto. Con le coperte a forma di nodo e una scena che ti resta addosso più delle lenzuola.

Il secondo sogno della notte, quello che mi ha svegliata con un colpo secco, era agitato in modo storto. Come quando prendi la metro sbagliata ma te ne accorgi tardi e allora fai finta che vada bene comunque. Era uno di quei sogni in cui le persone non sono ben definite ma tu, dentro, sai chi sono. Tipo che c’era un’amica, quella che si agita anche solo se il microonde fa beep troppo forte. Nel sogno ci chiamava con la voce rotta: “È scappato. Il mio cavallo è scappato.” E già così, col tono, avevo capito che non si parlava solo di animali.

Partiamo. Io, lei e un gruppo strano, uno di quelli che esiste solo nel sogno ma mentre ci sei sembra tutto normale. Uno era Cacci. Chi cazzo è Cacci, ancora non l’ho capito. Ma io, nel sogno, dicevo proprio: “andiamo con Cacci.” Tipo che era affidabile, uno di cui ti fidi per recuperare cavalli in fuga. Arriviamo in questa zona che sembrava un incrocio tra una fattoria e un centro sociale anni Novanta. C’era la stalla, ma anche sedie pieghevoli, pavimenti in linoleum e un corridoio con le porte a vetro smerigliato. Sembrava che ogni spazio si fosse incollato all’altro senza pensarci troppo.

Il cavallo era lì. Ma non era da solo. Accanto a lui, dentro un recinto basso, c’era un uomo. Un tipo strano, capelli grigi rasati male e una polo color sabbia che si ostinava a non stare asciutta. Parlava piano, con quelle pause da terapeuta che ti viene da guardare l’orologio ogni volta che apre bocca. Diceva: “Emotional psicology per cavalli.” Così, in inglese maccheronico. Ma con convinzione. Aveva un cappello da pescatore e gli occhi piccoli. Di quelli che sembrano sempre appena svegliati.

Nel sogno, nessuno ride. Nessuno fa domande. Accompagniamo il cavallo lì dentro come se fosse un check-up normale, come se avessimo sempre saputo che si fa così. Il cavallo entra calmo. Tranquillo. Gli zoccoli fanno rumore sul cemento ma lui pare sapere esattamente dove sta andando. Io lo guardo. Ho gli occhi fissi sui suoi occhi, che non sono mai come nei film: qui sono umidi, un po’ opachi, un po’ persi.

E poi cambia scena. Salto. Come se qualcuno avesse tagliato e incollato un altro pezzo di pellicola. Io sono in macchina. Non so se è la mia o quella di qualcun altro, ma sto guardando qualcosa nel cruscotto. Un oggetto piccolo, grigio. Forse una scatola, forse un telefono. C’è un simbolo inciso sopra, triangolare, ma con i bordi rotti. E mentre lo fisso, sento qualcosa che cambia. Un rumore sordo dentro al petto. Come se qualcuno avesse chiuso una porta a chiave senza avvisare.

Mi sveglio di botto. Neanche sudata, ma con le mani fredde. Ho sentito che c’era qualcosa, tipo una presenza. Qualcosa che si è infilato nel sogno senza chiedere il permesso. Non so se fosse la morte, o solo il pensiero della morte, che ultimamente bussa spesso ma piano, come chi non vuole disturbare. Il simbolo che ho visto nella macchina era legato a quella sensazione. Forse non alla morte vera, ma a qualcosa che finisce. Una fase, una sicurezza, un pezzo di me.

Sono rimasta sveglia così, con lo sguardo sul soffitto e i polpacci che tiravano, come dopo una camminata troppo lunga. Ho pensato al cavallo, alla mia amica, a Cacci, a quell’uomo strano che parlava ai cavalli come se fossero pazienti in terapia di coppia. Ho pensato che forse quel cavallo fossi io. O forse era una parte di me che avevo perso e che ora qualcun altro stava cercando di rimettere in riga.

Ma la cosa più chiara, quella che ancora adesso mi gira nella testa mentre scrivo, è che il cavallo non era fuggito per caso. Era andato via per cercare un posto dove qualcuno lo ascoltasse sul serio. E io? Io stavo lì, in un sogno, a guardare e a cercare un significato. Come sempre. Come se anche nei sogni non riuscissi a stare ferma e basta.

E quindi, niente. Questo è il racconto. Il secondo sogno della notte. Quello che sembra scritto da qualcun altro, ma che mi è rimasto addosso come certi messaggi vocali che non cancelli per mesi.

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