Una visita, un bambino perduto e un gattino senza nome: cronache di un sogno rotto in tre atti

Le utime dal diario

La lella
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Lella fin da piccola, ho sempre seguito questo motto: "sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo". Credo che la sessualità e l’identità siano elementi soggettivi, tanto che qualsiasi regola non sarebbe mai quella perfetta. Nessuno di noi è solo una cosa e non esiste una definizione che possa andare bene sia per me che per te. A dire il vero, esiste un’etichetta in cui mi sento perfettamente a mio agio ed è proprio l’essere me stessa, perché è fatta su misura per me, racchiude tutto ciò che sono ed è pronta ad accogliere ciò che sarò.

Inizia come un incubo, ma con i colori sbagliati. Non quelli lividi e bui tipici delle paure da film, ma quelli pastello, sbavati, tipo acquerello stanco. Mi trovo in ospedale, che già di per sé non promette nulla di buono, con la pancia piena. Sette, otto mesi. Una cosa così. Solo che, nel sogno, è chiaro che sono incinta io. E la mia compagna è con me, presente, concreta, reale come poche volte capita anche nella vita vera. Sta seduta accanto, occhi addosso a me, e a quella ginecologa che, dopo aver capito che siamo una coppia, si blocca.

Non dice nulla, ma il corpo parla. Fa quella cosa da gente str…da certa gente: si tira indietro con una lentezza che non è esitazione, ma rifiuto puro. Dice che non può, che non si sente, che ci sono altri colleghi. Quelli più adatti. Come se la capacità di leggere un’ecografia si attivasse solo in presenza di coppie etero. L’aria diventa una stanza chiusa. Mi alzo, esco, dico qualcosa, forse bestemmio. Poi lo chiamo, quello che nel sogno è un mio amico interno in chirurgia. Siamo in confidenza, anche se nella realtà non l’ho mai visto. Ma là sì. C’è. E fa una visita al volo, tipo gesto da serie tv. Poi, pausa. Un silenzio che non guarda in faccia nessuno. E la frase arriva: “Non c’è battito.”

Sento la pancia diventare vuota come una borsa dimenticata sull’autobus. Mi metto a piangere in piedi, a scatti, senza pensieri, tipo quando il corpo decide da solo cosa fare. Dice che bisogna operare, che va fatto subito. Io non dico niente. Taglio. Buio. Salto temporale, che manco Netflix.

Sono in un bosco, in compagnia di Katy. Camminiamo da ore, senza un sentiero, con addosso quella sensazione appiccicosa che ti resta quando sogni di aver perso qualcosa, ma non ti ricordi cosa. La terra sotto i piedi è umida, e gli alberi fanno quel rumore strano, come se si parlassero tra loro. A un certo punto, vediamo quattro figure entrare in una grotta. Sembrano ragazze, o almeno così appaiono. Ci avviciniamo, seguiamo i movimenti, ma più entriamo nella grotta, più i contorni delle loro sagome si fanno opachi. Non spariscono, ma perdono precisione. Come le immagini vecchie su pellicola.

Non c’è spiegazione. Nuovo taglio. Adesso è giorno, chiaro, e stiamo cercando il proprietario di un gattino. Non è nostro, ma è con noi. Ci segue, si ferma ogni tanto, poi riprende a camminare. Io e Katy facciamo domande in giro, ma è come se fossimo trasparenti. Parliamo, ma la gente è impegnata a bere, a ridere, a scattarsi foto davanti al lago. A un certo punto ci sono dei conoscenti, che un tempo erano amici. Stanno lì, seduti su un molo di legno, con bottiglie a metà e risate di plastica. Li guardiamo. Loro ci guardano. E basta così.

Poi succede che una di loro, senza nemmeno salutarci, ci chiama. Ha bisogno di aiuto per scegliere un regalo. Dice che è per un’amica. Andiamo con lei. Entriamo in un negozio di quelli pieni di scatole, colori, voci basse e aria condizionata sbagliata. Lei guarda tutto, poi prende un ventilatorino, uno di quelli da scrivania, e va a pagare. Ma invece di chiudere, si gira verso di noi e dice: “Compilate voi i moduli dell’assicurazione.”

Rimaniamo con la cassiera, due sconosciute che devono completare un acquisto altrui. Io guardo il gattino, che nel frattempo si è accovacciato sotto il banco e sembra a suo agio. Poi mi sveglio.

Ed è lì che arriva la botta. Non la parte del bambino, o la grotta, o la gente che sparisce. Ma quella del gattino che si sdraia come se tutto andasse bene. Perché qualcosa dentro di me, mentre mi allontano dal sogno, mi dice che forse, alla fine, l’abbiamo adottato davvero. Che in mezzo a tutto quel casino, un senso piccolo e peloso si è fatto spazio.

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