Davanti alla mia pagina bianca, come sempre, cerco un punto d’inizio. Ogni volta è la stessa storia: resto ferma qualche secondo, poi qualcosa dentro si scioglie e le parole iniziano a scorrere. Non serve neanche pensarci troppo, perché quando la scrittura decide di arrivare, arriva. E infatti eccole, di nuovo qui.
Negli ultimi mesi ho pensato spesso al blog, al diario, a tutto quello che rappresenta. Ho ripensato a come è cambiato nel tempo, a quante volte ho provato a dargli una forma diversa, a capire cosa volessi davvero raccontare. Mi sono anche chiesta perché a volte mi senta delusa quando i numeri non si muovono, quando i follower non crescono, quando le visualizzazioni restano ferme. E non è per vanità — quella roba l’ho superata da un pezzo — ma per la sensazione di scrivere dentro un vuoto. Come se le parole si perdessero appena pubblicate, come se restassero intrappolate dentro lo schermo.
Eppure lo so, non è mai stato per i numeri.
Non è mai stato per i “mi piace”.
Quello che pesa, semmai, è la lentezza con cui le cose cambiano. La mentalità. Quell’indifferenza diffusa che ti fa sentire sempre un passo indietro. Non ce l’ho con le persone, ma con quella specie di morbida immobilità che sembra contagiare tutto: le idee, le reazioni, i gesti. Ti ci inciampi addosso, anche quando non vuoi.
Dopo anni di lavoro nel mondo LGBTQ+, di articoli, podcast, post, e tentativi di far crescere i progetti, ho deciso che voglio tornare all’essenziale: la scrittura.
Nient’altro.
Non i numeri, non le strategie, non le piattaforme da “curare”.
Solo la scrittura, quella che non chiede nulla in cambio.
E mentre ci pensavo, mi è tornata in mente tutta la mia storia con gli pseudonimi. Perché, se ci penso bene, il mio percorso è stato una specie di matrioska di identità.
All’inizio c’era un primo nome — con “Lister” già dentro — che usavo per nascondermi e per proteggermi. Poi è arrivato Il diario dei 30 anni, quando avevo bisogno di raccontare quella fase di mezzo, quell’età in cui inizi a farti domande e a smettere di fingere.
Da lì nacque Il diario di una lella, che era un’evoluzione naturale, più diretta, più coraggiosa, più mia.
E adesso, forse, sono semplicemente tornata a essere me stessa.
Senza diario, senza pseudonimo, senza strati intermedi.
Solo io, con il mio modo di scrivere e la voglia di farlo respirare di nuovo.
Scrivere di lelle non è la mia identità.
Scrivere lo è.
Da sempre.
E allora perché dovrei arrabbiarmi per le cose che non avanzano in Italia, per la rigidità, per i limiti che ancora si incontrano appena provi a parlare di diversità, di relazioni, di libertà?
Forse perché ci ho creduto, e perché una parte di me ci crede ancora.
Ma arrabbiarsi non serve. Serve continuare, anche se il terreno non è dei più fertili.
Ho smesso di dare nomi ai progetti, di pensare alle categorie, di chiedermi se DDUL debba restare com’è o cambiare ancora. Voglio tornare a un ritmo più naturale, quello che avevo all’inizio: scrivere quando sento che ho qualcosa da dire, non perché c’è da pubblicare.
E così, tra un pensiero e l’altro, è arrivata anche la poesia.
Mi sono iscritta a un corso di poesia in francese. È una cosa che, fino a poco tempo fa, non avrei mai pensato di fare. Nel gruppo ci sono quasi solo persone anziane — e sono incredibili. Non hanno fretta, non si preoccupano se una rima suona strana o se un verso è troppo lungo. Hanno la calma e l’intensità di chi scrive da una vita senza preoccuparsi di piacere.
Io invece, come sempre, mi sono portata dietro il mio senso esagerato di autocritica. La mia poesia non mi è piaciuta per niente, come al solito. Mi sono detta che era sbilenca, troppo semplice, forse goffa.
E invece al professore è piaciuta. Anche agli altri.
Alla fine della lettura, lui si è avvicinato e mi ha detto:
— Molto bella, cara.
E io, un po’ imbarazzata, ho provato a sdrammatizzare:
— Era mia madre, la poetessa, io no.
Lui ha sorriso, senza pensarci troppo, e ha risposto:
— Ma non solo lei, a quanto pare.
Non so perché, ma quella frase mi è rimasta addosso.
“Non solo lei.”
Come se avesse spostato qualcosa, un millimetro appena, ma abbastanza da farmi respirare meglio.
E dire che vent’anni fa prendevo in giro i poeti. Li trovavo lenti, distanti, troppo presi dalle loro metafore. E invece ora eccomi qua, con un quaderno pieno di parole spezzate e un gruppo di sconosciuti che leggono versi in francese. Strano come certe cose cambino forma quando smetti di opporvi resistenza.
Nel frattempo, ho anche creato il mio nuovo sito, quello di Allison Lister.
Un posto più ordinato, dove parlerò solo di libri, di scrittura, di progetti.
Uno spazio per raccogliere tutto quello che ho costruito finora, ma con un tono diverso, più maturo, meno affannato.
Non ho smesso di essere Diario di una lella, ma non voglio più che tutto passi da lì.
Il diario resta il mio spazio “privato“, quello dove le cose nascono, crescono e si incasinano, ma Allison Lister è la voce che esce nel mondo.
E come diceva Battisti, lo scopriremo solo vivendo.
Alla fine è sempre così: puoi programmare, pianificare, spingere, ma la parte vera succede mentre vivi.
E io, adesso, voglio vivere anche quello che scrivo.