Del ciclo, dei calzini e del menu da tremila pagine (venerdì edition)

Le utime dal diario

La lella
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Lella fin da piccola, ho sempre seguito questo motto: "sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo". Credo che la sessualità e l’identità siano elementi soggettivi, tanto che qualsiasi regola non sarebbe mai quella perfetta. Nessuno di noi è solo una cosa e non esiste una definizione che possa andare bene sia per me che per te. A dire il vero, esiste un’etichetta in cui mi sento perfettamente a mio agio ed è proprio l’essere me stessa, perché è fatta su misura per me, racchiude tutto ciò che sono ed è pronta ad accogliere ciò che sarò.

Finalmente venerdì, almeno sulla carta. Perché nella pratica mi sveglio con la sensazione che sia lunedì travestito. Ho una lista di cose da fare che non ha senso e un livello di energia degno di un criceto stanco. La mattinata comincia con una nota dolente: devo finire il menu del mio cliente. Sì, quello. Il famoso progetto da tremila pagine che, giuro, nemmeno la Treccani. Ma c’è una buona notizia: ho una bozza di arborescenza, pare che le voci del menu si siano ridotte a una cinquantina. Una gioia effimera, certo, perché ora tocca fare la messa in pagina, e già mi si chiudono gli occhi al pensiero.

Nel frattempo, dovrei anche occuparmi del giardino, continuare il mio romanzo e infilare una sessione sportiva – il tutto prima delle due, quando inizierà ufficialmente la fase “non ho più tempo per vivere”. Solo che oggi non sto bene. Non so se è l’ansia, l’esaurimento o entrambe, ma il ciclo non si decide a partire. E mi dà sui nervi. Sarà lo stress, la dieta cambiata, i dieci chili in meno, lo sport quotidiano. Sarà il mio corpo che dice: ‘fermati’. L’ultima volta che è successo avevo diciassette anni, nel pieno dell’anoressia. Oggi ho trentasette, e il fatto che sia sparito così, senza preavviso, mi lascia una sensazione strana. Tipo vuoto dentro. Mi fa quasi ridere perché per anni ho sperato di non averlo più. E invece adesso mi manca. Cioè, sto qui che quasi piango perché non mi sento più “funzionante”.

Ecco, e mentre mi preoccupavo di questo, è arrivata la conferma ufficiale della mia celiachia. Giovedì lo specialista ha detto “è lei, signora”. Addio pizza, addio pasta, addio croccantezze del mondo.

Ieri ero incazzata. Ma davvero. E non solo per il glutine. Anche per Katy. Sì, di nuovo. Perché continua a prendere le mie cose senza chiedere. Ora ditemi: sono io la pazza? No perché, magari, eh. Ma a casa mia si è sempre chiesto prima di toccare roba altrui. È una regola basilare, di convivenza e di rispetto. E invece lei prende i miei calzini. Quelli nuovi, appena comprati, perché gli altri li ho buttati. Gliel’ho detto venti volte. VENTI. Ma niente. Zitta, fa finta di niente e via di calzino preso in prestito senza ritorno.
Ieri è toccato al secondo cuscino del cane. L’avevo lavato due volte. Profumato, pulito, bello soffice, pronto per il mio cucciolo. E lei? Lo prende e lo dà al suo cane. Senza dire una parola. Io sono entrata in salotto, l’ho visto, ho preso il cuscino e l’ho rimesso dove doveva stare. Lei ha visto. Io ho visto. Nessuna ha parlato. Uno sketch da sitcom, ma con sottofondo di frustrazione. Gliel’ho detto mille volte che voglio che chieda. Anche per una cosa da poco. Perché non è il cuscino in sé. È il messaggio che passa. Che posso parlare quanto voglio, ma le mie parole pesano quanto il piumino del cane.
Da ora in poi se succede ancora, prendo misure. Non per punirla, ma per difendere i miei confini. Perché per quanto si possa condividere una casa, una vita, un letto, le cose mie sono mie. E se dico che mi dà fastidio, il minimo che pretendo è che non venga ignorato. Anche perché sto già combattendo con un ciclo che non arriva, una dieta da rivedere e il menu a colonne multiple. Non ho spazio mentale per sentirmi invasa anche tra le lenzuola.
Detto ciò, questo sfogo mi serviva. E pure tanto. Adesso respiro, apro il sito, e provo a iniziare quella benedetta messa in pagina. Che tanto le voci del menu non si sistemano da sole.

Alla prossima. Tschüss.

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