Esperienza tra CrossFit e ambiente post-apocalittico: resoconto di una notte inaspettata

Le utime dal diario

La lella
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Lella fin da piccola, ho sempre seguito questo motto: "sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo". Credo che la sessualità e l’identità siano elementi soggettivi, tanto che qualsiasi regola non sarebbe mai quella perfetta. Nessuno di noi è solo una cosa e non esiste una definizione che possa andare bene sia per me che per te. A dire il vero, esiste un’etichetta in cui mi sento perfettamente a mio agio ed è proprio l’essere me stessa, perché è fatta su misura per me, racchiude tutto ciò che sono ed è pronta ad accogliere ciò che sarò.

Mi sveglio con il fiatone, la bocca secca, quella sensazione precisa che qualcosa, o qualcuno, mi abbia appena sparato in faccia. Non per modo di dire, ma con la precisione emotiva di chi si sveglia perché il cervello ha deciso che sì, adesso basta dormire. L’immagine che ho in testa non è nitida. È fatta di scatti, di scene che si muovono troppo veloci, come i vecchi video quando cercavi di metterli in pausa e rimanevano incastrati tra due frame, con le facce allungate e un audio che arriva prima del resto.

Ero in una zona che sembrava un campo improvvisato, uno di quei luoghi che non capisci se sono in montagna o dietro il giardino della zia, ma con quel dettaglio preciso che ti fa pensare: qui prima c’era vita, adesso c’è un silenzio che non si finge. Il paesaggio era sporco, come quando si fa un trasloco sotto la pioggia. L’aria ferma, ma sporca. C’ero io, con tre o quattro persone, ma Katy non c’era. O meglio, io sapevo che doveva esserci, lo sentivo in ogni scena, e invece niente. Il sogno si rifiutava di farla entrare.

Con me, tra gli altri, c’era lei. La coach. Quella del CrossFit dell’app, che già nella vita vera è invadente come un messaggio vocale da sette minuti quando stai per entrare in metro. Leggings neri, top tecnico, capelli raccolti e uno sguardo che ti attraversa pure se ti incolli un poster di un’altra faccia in fronte. Nel sogno era diversa. Stava sempre con me. C’era con una presenza costante, come un peso nello zaino: non fastidioso, ma lo senti.

E a un certo punto mi bacia. Così. Senza preparazione, senza prologo. Come si fa nelle serie quando i due si guardano da sei episodi e poi, zac. Il bacio. Solo che io, dentro, mi spengo. Va in crash tutto. Perché è figa, sì. Lo è oggettivamente. Ma non è il mio tipo. E poi non so nemmeno se ce l’ho, un tipo. Mi piacciono quelle che sembrano essersi infilate nel giubbotto del fratello maggiore, le mani grandi, il passo deciso. Lei, invece, ha un fisico che mi attira, e anche il lato un po’ dannato, quello che sembra dire “so quello che faccio e so come spezzarti il cuore ridendo”. Però poi c’è tutto quell’altro lato, troppo girly per i miei gusti, troppo patinato, troppo pettinato, con quel modo di muoversi che sembra sempre pensato per uno shooting fotografico. Io mi incastro con quelle che sembrano essersi scordate di pettinarsi, con la felpa stropicciata, le mani nei capelli e l’istinto di chi non ti guarda per piacerti, ma perché sta cercando di capire se sei una persona affidabile o se tanto vale evitarti.  

Nel sogno, reagisco come si reagisce quando il corpo è più sveglio della mente. Le dico: “sono già con qualcuno.” Ma a chi lo dico davvero? A lei, o a me stessa? Forse lo dico solo per trovare un appiglio, una scusa che mi faccia uscire da quella scena senza sembrare una che fugge.

Ma il sogno non mi lascia scappare. Subito dopo, siamo nel mezzo di qualcosa. Una missione, tipo videogame. Di quelle serie, alla The Last of Us. Mi ritrovo a dover compiere un’azione, guidare un gruppo, trovare qualcosa o qualcuno. Solo che nessuno mi spiega cosa. Eppure sento che devo farlo io. Come se tutto dipendesse da me, anche se io sto lì che a malapena riesco a tenere in mano lo zaino. La coach non se ne va. Anzi, è sempre più vicina, sempre più determinata, come se quella missione fosse solo un pretesto per stare con me. E io che all’inizio cercavo solo di capire se avessi le scarpe giuste, adesso mi ritrovo a studiare i suoi movimenti, a percepire i suoi sguardi, e inizio a rispondere.

Inizia così, piano, quella specie di relazione strana. Fatto sta che mi ritrovo dentro. Che poi, dentro cosa, non lo so. Forse solo dentro a una fantasia che mi sta fregando. Perché, in tutto quel caos da fine del mondo, io inizio a volerle bene. Ma a modo mio, un bene storto, fatto di dubbi e domande. Tipo: perché proprio lei? E se invece è solo perché mi sembra più forte di me? O perché io, in quel momento, mi sento un disastro ambulante?

E poi puff. Non la fine, ma una specie di interruzione. Il suono secco di una zampa di gatta sul parquet. Mi sveglia la mia, ovviamente. È la sua specialità: entrare nei sogni quando non è invitata. Apro gli occhi, ma resto ferma. Non so se sono sveglia o ancora lì. La missione è rimasta incompleta, e pure il bacio. E non so dire se mi dispiace o mi solleva. Ho solo quella sensazione che si appiccica addosso quando un sogno è talmente vivo da rovinarti il caffè.

Ero pronta a lasciar correre tutto, ma mentre mi alzavo ho realizzato una cosa: nel sogno, non avevo paura. Confusa sì, parecchio. Ma non spaventata. Quella coach era una presenza fissa, ma non giudicava. Forse perché era fatta dalla mia testa, forse perché in fondo era la parte di me che mi diceva: guarda che ce la fai, anche se sbagli. Anche se ti innamori nel momento sbagliato, nel posto sbagliato, di quella che nella realtà manco ti piace.

E così ci ripenso, tra una mail e una bolletta, con ancora addosso l’eco di quella zona mezza distrutta e quel bacio rubato. È stato un sogno del cavolo, sì. Ma mi ha messo davanti una domanda che non sapevo nemmeno di avere.

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