Ultimamente trovare il tempo per scrivere è diventato un esercizio di equilibrismo fra il possibile e l’impossibile, fra il desiderio di fermarmi a riflettere su tutto quello che è successo nelle ultime settimane e la realtà quotidiana che mi travolge con una forza tale da non lasciarmi nemmeno il respiro per aprire il computer e dire a me stessa “adesso mi siedo e scrivo, adesso racconto“. Perché poi cosa? Cosa raccontare quando le idee si accavallano nella testa come cavalli imbizzarriti che corrono in tutte le direzioni, quando i pensieri si sovrappongono gli uni agli altri formando una matassa così intricata che viene voglia di mollare tutto e dire vabbè, chi se ne frega, tanto chi leggerà mai ‘ste cose? Ma poi mi ricordo che scrivere non è questione di chi legge o non legge, scrivere è questione di mettere ordine nel caos, di dare forma a quello che altrimenti resterebbe confuso, sospeso in un limbo fra il vissuto e il dimenticato.
Quindi iniziamo dalle cose semplici, dalle cose che sono successe giorno dopo giorno, dalle vicende che mi hanno trasformata in una persona diversa da quella che ero appena qualche mese fa. Iniziamo da quella fine ottobre, inizio novembre che è stato un periodo così estenuante che ancora adesso, mentre ci ripenso, mi viene da ridere nervosamente perché se qualcuno mi avesse detto “fra poco avrai due cavalli e uno di questi ti farà vivere l’inferno per poi diventare la cosa più bella della tua vita“, gli avrei riso in faccia pensando che fosse completamente pazzo.
Il puledro salvato dal macello
Iniziamo da Thésée. Un puledro di otto mesi salvato dal macello, comprato al prezzo del peso della carne, che già solo sentirlo dire ti viene un nodo allo stomaco perché pensi “ma come cavolo è possibile che si compri un essere vivente come se fosse un pezzo di bistecca“, ma questa è la realtà delle cose, questa è la vita quando decidi di salvare qualcuno che altrimenti finirebbe su un piatto. Un grosso investimento economico, uno stipendio intero, ma era il sogno di Katy e io, da brava compagna che cerca di non rompere i coglioni quando l’altra persona ha un desiderio profondo, ho detto “vabbe’, va bene, però te ne occupi tu” perché di cavalli, devo ammetterlo, non me ne è mai fregato un accidenti.
Ora, è essenziale che voi sappiate una cosa fondamentale per capire tutta la storia: io non mi intendo di cavalli, non li ho mai approcciati in vita mia, e alla base non mi interessavano minimamente. E sì, lo so già che state pensando “ma scusa, te che ami così tanto gli animali, che ti commuovi davanti a un cane randagio e che piangi quando vedi documentari sui panda, i cavalli no?” Ecco, di base no, perché quando ero piccola ho visto un cavallo tirare un calcio su un amico durante una gita scolastica, e da allora la mia testa li ha catalogati come “animali pericolosi”, come creature imprevedibili che possono ucciderti con una zoccolata ben assestata. Ingiustamente, certo, ma i traumi infantili funzionano così, ti marcano per sempre e te li porti dietro come un bagaglio ingombrante che non riesci a mollare neanche quando vorresti.
Quindi arriva Thésée. Primo giorno, tutto bene. Katy si occupa di lui, io lo guardo da lontano pensando “bello, carino, ma io sto qua grazie“. Secondo giorno, catastrofe. Il puledro era agitato, irrequieto, nervoso, e non si sa come abbia fatto perché il recinto era intatto, perfettamente integro, l’ho ritrovato nel campo del vicino. Katy era a lavoro e io, che ripeto ancora una volta per far capire bene la situazione, non conoscevo assolutamente nulla di cavalli, mi sono ritrovata da sola con questo animale che pesava tipo duecento chili e che scorrazzava felice nel campo sbagliato.
Ho passato qualche ora, e quando dico qualche ora intendo tipo tre ore buone, a cercare di recuperarlo. All’inizio mi faceva correre come una scema per tutto il campo, lui che galoppava beato e io dietro che urlavo “ma vieni qua, porca miseria, devi tornare a casa” come se un puledro di otto mesi potesse capire l’italiano e improvvisamente decidere di collaborare. Poi, non so come, forse per pura fortuna o forse perché si era rotto i coglioni pure lui di correre, sono riuscita a farlo tornare nel nostro terreno, sempre correndogli dietro, sempre con il cuore a mille e la certezza che da un momento all’altro mi avrebbe tirato un calcio e mi avrebbe spedita al pronto soccorso. Probabilmente aveva paura pure lui, dopotutto era un cucciolo appena arrivato in un posto nuovo, lontano da quello che conosceva.
Quel primo giorno il cavallo mi ha fatto passare l’intera giornata con lui, mi ha costretta a entrare nel suo mondo anche se io non volevo, anche se avevo paura. E forse è stato proprio quello il momento in cui qualcosa è cambiato, anche se allora non lo sapevo ancora.
Le settimane di avvicinamento
Le settimane passano e io, che teoricamente dovevo occuparmi dei miei cazzi e lasciare i cavalli a Katy, mi ritrovo ad andare a vederlo ogni giorno. Cercavo di fargli una carezza, ma con i suoi tempi, senza forzare, senza invadere il suo spazio, perché avevo capito che con gli animali traumatizzati devi avere una pazienza infinita, devi aspettare che siano loro a decidere quando sei pronto per entrare nella loro bolla. Un giorno ci sono riuscita grazie a uno dei cavalli dei vicini, un vecchio cavallo saggio che gli ha mostrato l’esempio lasciandosi accarezzare tranquillamente, e Thésée mi ha guardata come per dire “ah, quindi funziona così, quindi questa umana non è pericolosa“. E io lì, felice come una scema per una carezza, come se avessi vinto il premio Nobel.
Ma poi arriva quel giovedì maledetto in cui lo vedo strano. Mangia poco, respira velocemente, ha gli occhi spenti. Io che di cavalli continuo a non capire un cazzo penso “vabbè, magari è stanco, magari ha solo bisogno di riposare“, ma qualcosa dentro di me, quell’istinto animale che abbiamo tutti ma che spesso ignoriamo, mi dice che c’è qualcosa che non va. Passa il venerdì, lui continua a stare male, e il sabato, primo novembre me lo ricordo benissimo perché poi mi è arrivata la fattura del veterinario che ancora mi fa male guardarla, chiamo Katy che era a lavoro e le dico “guarda che secondo me qui c’è un problema serio, la respirazione non è normale“.
Nel tempo che ci mette il veterinario ad arrivare, venti minuti che sembrano un’eternità, venti minuti in cui io resto lì a fissare questo animale che respira sempre più male, sempre più faticosamente, lo faccio scendere nel campo per farlo stare più comodo, e lui, Thésée, si accascia a terra. Svenuto. Probabilmente svenuto perché aveva sbattuto la faccia per terra, con quella violenza tipica di chi perde i sensi all’improvviso.
Il panico. Quello vero, quello che ti prende allo stomaco e ti strizza tutto quanto, quello che ti fa venire voglia di vomitare e di gridare allo stesso tempo. Ero sola, completamente sola, e non volevo prendere decisioni che non mi competevano, decisioni che riguardavano il sogno di Katy, decisioni che potevano cambiare tutto.
Il veterinario arriva, visita Thésée che è ancora a terra, immobile come un sacco di patate, e mi guarda con quella faccia che i medici hanno quando le notizie sono brutte, quella faccia seria che ti fa capire che la situazione è critica anche prima che aprano bocca.
“La situazione è critica,” mi dice, e io penso “no cazzo, davvero?“, ma ovviamente non lo dico ad alta voce perché quando sei nel panico totale le battute sarcastiche ti restano in gola. “Devi scegliere: o proviamo a salvarlo, o lo aiutiamo a partire.”
Aiutarlo a partire. Che bella espressione. Come se uccidere un animale fosse accompagnarlo gentilmente verso un viaggio. Chiamo Katy, le spiego la situazione con la voce che mi trema, e insieme decidiamo di provare a salvarlo. Perché quando hai la possibilità di lottare, anche se le probabilità sono minime, devi provarci, devi tentare, sennò poi te lo porti dietro per sempre quel “e se…“
Passano le ore. Il veterinario fa le sue cose, idratazione, antibiotici, io sto lì seduta per terra accanto a Thésée che continua a essere svenuto, lo accarezzo, gli parlo, gli chiedo di lottare, piango come una disperata pensando che questo puledro che fino a qualche settimana fa mi faceva paura adesso è diventato importante, è diventato qualcuno per cui vale la pena soffrire. Arriva Katy dal lavoro, con quella faccia stravolta di chi sa già che le cose sono andate male ma spera ancora nel miracolo.
E il miracolo, stranamente, arriva. Thésée si alza. Si alza da solo, barcollando come un ubriaco, ma si alza. Il veterinario ci guarda incredulo e dice “non me lo aspettavo, davvero, pensavo fosse finita“, poi aggiunge che deve andare a cercare altre cose per continuare le cure e che dovremmo portarlo nel suo rifugio, nel suo box vicino a casa, perché si trovava in fondo al bosco verso il ruscelletto.
Ah sì, dimenticavo di specificare: io ho un terreno abbastanza grande, sennò di cavalli manco se ne parlava. Quindi noi due, io e Katy, ci guardiamo e pensiamo “e adesso come cazzo facciamo a portare un puledro malato su per una salita nel bosco?“. Ma non c’è tempo per pensarci troppo, bisogna farlo e basta.
Katy tira da davanti con la cavezza, io, che avevo una paura matta di stare dietro al sedere di un cavallo perché continuavo a pensare “e se mi tira un calcio e mi spacca la gamba?“, spingo come una matta il suo nobile didietro, tutto questo in salita, con le gambe che bruciano e il respiro che manca, ma ce la facciamo. Ce la facciamo perché quando devi farcela non hai alternative, quando qualcuno dipende da te non puoi dire “ah no vabbe’, è troppo faticoso“. Lo portiamo vicino a casa, lo mettiamo nel suo box, e lì iniziano le settimane più lunghe della mia vita.
Le settimane della lotta
L’indomani, dopo altre ore di cure, avevamo paura del risveglio. Paura di scendere giù e trovarlo morto, paura di scoprire che tutti gli sforzi della notte prima erano stati inutili. Spesso si sdraiava a terra, si sentiva che soffriva, che ogni respiro era una fatica immane. Ma lui ha lottato, quel piccolo bastardo coraggioso ha lottato con una forza che non sapevo neanche esistesse negli animali. Era ancora lì, era ancora vivo, e ha continuato così per settimane.
All’inizio pensavamo che fosse stato il vermifugo che gli avevamo dato qualche giorno prima. Era infestato di vermi, letteralmente infestato, e dopo avergli dato il vermifugo era entrato in setticemia. Ma poi arriva la veterinaria specializzata in cavalli, quella vera, quella che capisce sul serio di queste cose, e dopo una visita accurata ci dice “no, molto più probabilmente è colpa delle samare“.
“Le cosa?” chiedo io, perché di samare non avevo mai sentito parlare in vita mia.
“Le samare,” ripete lei, “quei semi dell’acero che hanno quella forma ad elica, con le due ali che girano quando cadono. Sembrano innocui, ma per i cavalli sono letali. Si infilano nel fieno, i cavalli li mangiano, e quei semi appuntiti perforano l’intestino, causano infezioni gravissime. Setticemia. Spesso mortale.”
Io e Katy ci guardiamo e pensiamo “ma porca miseria, quindi era colpa di semi che nemmeno sapevamo fossero pericolosi?“. E lì capisci quanto è fragile la vita, quanto basta poco per perdere qualcuno, quanto la natura può essere bella e crudele allo stesso tempo.
Questa esperienza mi ha profondamente cambiato il rapporto con i cavalli, e soprattutto con lui, con Thésée, che ora amo più di ogni altra cosa. È un amore vero, quello che nasce dalla sofferenza condivisa, dal fatto di aver lottato insieme, di aver visto la morte in faccia e di averla sconfitta. Lui adesso fa le coccole, è contento quando ci vede arrivare, nitrisce felice come per dire “eccole, sono tornate le mie umane“. Quasi sempre, almeno, perché a volte ha le sue giornate storte e preferisce starsene per conto suo, e io rispetto questo suo bisogno di solitudine perché lo capisco perfettamente.
Nel frattempo è arrivato anche Lucifero, il pony. Siamo andate a vederlo insieme a Katy, ci avevano detto che era dolce, che era buono. Una vera peste, invece. Porta bene il suo nome, quel demonio a quattro zampe. Mi sono presa una zoccolata nella gamba che ancora mi fa male quando piove, e quindi per ora prendo le mie distanze. Ma essendo un animale maltrattato, uno di quelli che ha visto il peggio dell’umanità, gli lascio del tempo. So che è dolce, che dentro di lui c’è un cuore buono, ma non sa come fare con gli umani, non sa come fidarsi, gli ci vorrà del tempo per capire che noi non siamo come quelli che lo hanno picchiato, che lo hanno trattato come un oggetto.
La notizia devastante
Qualche settimana dopo, arriva la notizia devastante. I cavalli del vicino, quei due cavalli che erano lì da quando avevo comprato casa, quei due cavalli che avevo visto ogni giorno per anni, morti a distanza di ventiquattro ore l’uno dall’altro. Samare. Ancora quelle maledette samare, stavolta senza nessuna ombra di dubbio.
Io non sono riuscita nemmeno ad andare a salutarli, non ce l’ho fatta. Era troppo doloroso, troppo vicino a quello che avevo vissuto con Thésée, troppo simile a quell’incubo che per fortuna si era concluso bene ma che avrebbe potuto benissimo finire male. Quei cavalli erano parte del paesaggio, erano lì quando mi affacciavo alla finestra la mattina, erano compagnia silenziosa ma costante. E adesso non ci sono più. Morti per colpa di semi stupidi, per colpa di qualcosa che nessuno avrebbe mai immaginato potesse essere così letale.
Katy mi ha guardato e mi ha detto “Thésée ce l’ha fatta per miracolo, capisci? Per puro miracolo“, e io ho pensato che forse i miracoli esistono davvero, che forse a volte la fortuna gira dalla parte giusta, che forse quel puledro doveva restare qui per insegnarmi qualcosa che ancora non so bene cosa sia ma che sento dentro.
Tagliare i rami secchi
Ma i cavalli non sono state le uniche cose importanti di questi ultimi mesi. Ho fatto anche altro, ho preso decisioni che rimandavo da troppo tempo, ho finalmente trovato il coraggio di dire basta a persone che mi stavano prosciugando l’anima goccia dopo goccia. Ho bloccato parecchie persone tossiche, fra cui due di cui parlavo spesso qui sul blog: Flo e Ruggero, che adesso si fa chiamare Leon come se cambiare nome potesse cambiare quello che sei dentro.
Per Ruggero è stato più complicato, perché siamo cresciuti insieme, perché abbiamo condiviso anni di amicizia, perché pensavo che certi legami fossero indistruttibili. Ma farmi attaccare così gratuitamente, senza motivo, solo perché gli girava male e aveva bisogno di scaricare la sua frustrazione su qualcuno, non lo meritavo. E ogni volta che ci sentivamo era sempre la stessa storia: negatività, manipolazione, quella capacità sottile di farti sentire in colpa per cose che non hai fatto, di rigirarti le parole in bocca fino a farti dubitare della tua stessa versione dei fatti.
Basta manipolatori nella mia vita. Basta con quelli che ti succhiano l’energia vitale e poi ti dicono che sei tu quella esagerata, che sei tu quella che non capisce. Ne ho avuti troppi. Inès, la mia ex, che nel blog ho sempre chiamato così anche se non è il suo vero nome, era una maestra della manipolazione emotiva, di quelle che ti fanno credere di essere pazza quando sei perfettamente lucida, di quelle che ti convincono che il problema sei tu quando il problema è chiaramente loro. Mio padre, stesso discorso, stessa dinamica tossica fatta di giudizi continui, di aspettative impossibili da soddisfare, di quella sensazione costante di non essere mai abbastanza.
E ora anche Flo e Ruggero. Via, cancellati, bloccati. E sapete una cosa? Sto da Dio. Sto meglio di come stavo da anni. Perché quando togli dalla tua vita le persone che ti fanno male, improvvisamente hai spazio per respirare, hai energia per le cose che contano davvero, hai tempo per te stessa invece di spenderlo a cercare di capire cosa cazzo hai fatto di sbagliato stavolta.
Il mercatino del 14 dicembre
E poi c’è stato il mercatino. Il 14 dicembre, sabato scorso, ho fatto il mio primo mercatino letterario in Francia con i miei libri. Ovviamente la sindrome dell’impostore è tornata a farmi visita, puntuale come un orologio svizzero, a sussurrarmi all’orecchio “ma chi te lo fa fare, tanto non vendi niente, tanto non sei abbastanza brava“. Ma questa volta, miracolosamente, sono riuscita a mandarla affanculo più velocemente del solito. Sono riuscita a dirle “senti cara, adesso basta, ho fatto il lavoro su me stessa, ho capito che ho il mio posto anche io, quindi levati dalle palle“.
Come è andata? Bene. Non benissimo, non come speravo, ma bene. Ho fatto qualche vendita, che per me è già tanto considerando che c’era una concorrenza pazzesca, almeno cinquanta scrittori tutti in fila con i loro banchetti, tutti con le loro pile di libri, tutti che cercavano di attirare l’attenzione dei passanti. Per me è stato complicato, perché io non sono una che sa vendersi, non sono una che sa fare marketing aggressivo, sono una che sta lì zitta e spera che qualcuno si avvicini da solo.
Ma la cosa bella, quella che mi ha fatto capire che ne è valsa la pena, è che il libro sulle poesie di mia madre, quello che ho editato io con le mie mani tremanti e il cuore a pezzi, ha avuto un buon esordio. La gente lo sfogliava, leggeva qualche verso, mi guardava e diceva “è bellissimo, lo prendo“. E io lì, con gli occhi lucidi, pensavo “mamma, ce l’abbiamo fatta, sei qui con me anche se non ci sei più“.
Anche il libro per bambini ha venduto bene, il che mi ha sorpreso perché pensavo fosse troppo particolare, troppo fuori dagli schemi per piacere. Invece no. I bambini lo adorano, i genitori lo comprano. Quello sulla programmazione, come immaginavo, non ha venduto un cazzo perché il pubblico non era quello giusto, e quello LGBT idem, perché in Francia, almeno in quella zona, l’argomento è ancora un po’ tabù.
Ma la cosa più divertente, quella che mi ha fatto ridere per giorni, è stato l’incontro con alcune ragazze che si sono avvicinate al mio banchetto, hanno preso in mano il libro, lo hanno sfogliato, e poi mi hanno chiesto “ma ci sono scene hot?”.
“In italiano sì,” gli ho risposto, “in francese no, perché sento l’atmosfera meno… hot. Non so spiegarlo, è una questione di lingua, di percezione.”
E loro, serissime, mi hanno detto “guarda che la gente ha bisogno di questo, sai? Rimetti la scena in francese e vedrai che lo compriamo. Anzi, lo comprano tutti.”
Io sono rimasta lì tipo “ma davvero? Davvero il problema è che mancano le scene di sesso esplicito?“, ma poi ho pensato che forse hanno ragione, che forse il pubblico francese è diverso da quello italiano, che forse devo adattarmi se voglio vendere in questo mercato. Vedremo. Magari lo faccio, magari no. Dipende da quanto mi va di scrivere scene hot in una lingua che per me è ancora un po’ ostica.
La cosa più bella, però, quella che mi ha riempito il cuore più di qualsiasi vendita, è stata conoscere tanti altri scrittori. Parlare con loro, scoprire le loro storie, capire che anche loro hanno le stesse paure, le stesse insicurezze, la stessa sindrome dell’impostore che ti rode dentro. Mi sono sentita parte di un gruppo, parte di una comunità, parte di qualcosa di più grande di me. E questa sensazione, credetemi, vale più di qualsiasi vendita.
La rinascita creativa
E poi c’è la fotografia. Ho ripreso la fotografia con una passione che non avevo da anni, tanto che mi sono offerta un nuovo modello di Nikon, una macchina fotografica che costa un botto ma che vale ogni singolo centesimo perché quando la prendi in mano senti che è quella giusta, che è lo strumento che ti permetterà di catturare quello che vedi, quello che senti.
Tutto questo fa parte di una rinascita più ampia, di un processo che è iniziato esattamente un anno fa quando ho smesso di bere. Un anno senza alcol. Un anno in cui mi sono sentita rinascere, in cui ho capito che tutta quella merda che bevevo non era per divertirmi ma per anestetizzare il dolore, per non sentire, per non pensare. E adesso che ho smesso, adesso che sono lucida ventiquattro ore su ventiquattro, tutta la parte creativa ha bisogno di uscire fuori, di esplodere, di manifestarsi in ogni forma possibile.
Scrivo, fotografo, lavoro sul web development che è il mio lavoro vero, quello che mi paga le bollette, e poi faccio mille altre cose che prima nemmeno immaginavo di poter fare. È come se qualcuno avesse tolto un tappo e adesso tutto scorre, tutto fluisce, tutto è possibile.
Lato lavorativo, infatti, è stato un periodo intenso. Tanto lavoro, tanti progetti, tanta fatica ma anche tanta soddisfazione. Perché quando lavori su qualcosa che ti piace, anche se è stancante, anche se a volte vorresti mandare tutto a fanculo, c’è sempre quella sensazione di appagamento che ti fa andare avanti, che ti fa dire “sì, va bene, ce la posso fare“.
Verso il 2026
E adesso eccomi qua, a metà dicembre, a guardare indietro a questi ultimi mesi e a pensare “dai, quanto è successo, quanto sono cambiata, quanto ho imparato“. Ho imparato che i cavalli non sono pericolosi come pensavo, che anzi sono creature straordinarie capaci di insegnarti cose che nessun essere umano potrebbe insegnarti. Ho imparato che tagliare i rami secchi dalla tua vita non è crudeltà ma necessità, che tenere vicino persone tossiche solo perché “abbiamo una storia insieme” è un suicidio lento. Ho imparato che la sindrome dell’impostore è una stronzata, che tutti ce l’hanno, anche i più bravi, anche i più famosi, e che l’unico modo per sconfiggerla è fare, provare, sbagliare, riprovarci.
Ho imparato che i miracoli esistono, che a volte le cose vanno bene anche quando sembrano andare malissimo, che la vita è imprevedibile e proprio per questo bellissima. Ho imparato che la creatività repressa fa male, che tenerla dentro è come tenere il respiro troppo a lungo, che prima o poi devi lasciarla uscire sennò soffochi.
E soprattutto ho imparato che sono pronta. Pronta a ripartire, pronta ad affrontare il 2026 con le good vibes, con l’energia giusta, con la consapevolezza che qualsiasi cosa succeda, me la caverò. Perché se sono riuscita a salvare un puledro dal macello e poi dalla morte, se sono riuscita a tagliare fuori dalla mia vita persone che credevo indispensabili, se sono riuscita a stare davanti a un banchetto pieno di libri senza crollare dalla vergogna, allora posso fare qualsiasi cosa.
Thésée mi ha insegnato a lottare anche quando tutto sembra perduto. Lucifero mi insegnerà la pazienza, prima o poi. I cavalli morti dei vicini mi hanno insegnato che la vita è fragile, che può finire da un momento all’altro per colpa di semi stupidi. Flo e Ruggero mi hanno insegnato che non tutti meritano di restare nella tua vita. Il mercatino mi ha insegnato che ho un posto anche io, che non devo sempre sentirmi fuori posto.
E io, guardando tutto questo, sorrido. Sorrido perché finalmente, dopo anni di caos, di dolore, di confusione, ho capito che sto andando nella direzione giusta. Che la strada è ancora lunga, che ci saranno altri momenti difficili, altre cadute, altre notti passate a piangere. Ma so anche che mi rialzerò, come mi sono sempre rialzata, come Thésée si è rialzato quel primo novembre quando tutti pensavamo fosse finita.
Perché alla fine è questo che conta: non quante volte cadi, ma quante volte ti rialzi. E io, cazzo, mi rialzo sempre.
Sempre.
P.S. – Se passate da queste parti e vedete un puledro marrone chiaro con la faccia dolce e gli occhi furbi, quello è Thésée. Dategli una carezza da parte mia. E se vedete un pony marrone che vi guarda male, quello è Lucifero. Con lui state attenti.