Il tremore della verità

Le utime dal diario

La lella
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Lella fin da piccola, ho sempre seguito questo motto: "sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo". Credo che la sessualità e l’identità siano elementi soggettivi, tanto che qualsiasi regola non sarebbe mai quella perfetta. Nessuno di noi è solo una cosa e non esiste una definizione che possa andare bene sia per me che per te. A dire il vero, esiste un’etichetta in cui mi sento perfettamente a mio agio ed è proprio l’essere me stessa, perché è fatta su misura per me, racchiude tutto ciò che sono ed è pronta ad accogliere ciò che sarò.

La mattina si era presentata come tutte le altre, con quella sottile patina di grigio che sembrava posarsi sui vetri della finestra e sui pensieri di chi si sveglia senza sapere bene perché, senza avere una ragione precisa per alzarsi dal letto se non l’abitudine di farlo. Eppure, quando mi ero vestita per andare all’appuntamento, qualcosa dentro di me aveva iniziato a muoversi, come se il corpo sapesse già quello che la mente non osava ancora ammettere: che quella seduta di Reiki sarebbe stata diversa da tutto quello che avevo immaginato.

Avevo pensato a tre sorelle, forse con le mani calde e i sorrisi gentili, magari qualche parola sussurrata e l’odore di incenso nell’aria. Avevo immaginato di sdraiarmi su un lettino, di chiudere gli occhi e di lasciarmi cullare da una quiete che non trovavo più da sola. Invece, quando sono entrata in quella stanza, ho capito immediatamente che non ci sarebbe stata pace, almeno non quella che cercavo.

La sorella più giovane mi ha accolta con un sorriso che sembrava conoscere già tutto di me, come se avesse letto nelle mie spalle curve e nei miei gesti trattenuti una storia che io stessa non riuscivo a raccontare. Aveva le mani lunghe e sottili, e quando ha iniziato a lavorare sul mio corpo, ho sentito subito che c’era qualcosa di diverso nel suo tocco. Non era solo tecnica, non era solo esperienza. Era come se attraverso le sue dita passasse qualcosa che veniva da molto lontano, qualcosa che non le apparteneva completamente ma che lei sapeva canalizzare con una naturalezza che mi ha fatto tremare.

E infatti ho tremato. Non un tremore di freddo o di paura, ma qualcosa di più profondo, che partiva dal centro del petto e si irradiava lungo le braccia, lungo le gambe, fino alle dita dei piedi. Un tremore che non riuscivo a controllare e che, per la prima volta da tanto tempo, non volevo controllare. Era come se il mio corpo stesse finalmente parlando una lingua che avevo dimenticato di conoscere.

Ma quello che mi ha colpito di più è stato vedere che anche lei tremava. La sorella più giovane, quella che aveva le mani su di me, a un certo punto ha iniziato a tremare proprio come me, e i suoi occhi si sono fatti lucidi mentre continuava a lavorare. Ho capito che quello che stava succedendo non era qualcosa che lei provocava deliberatamente, ma qualcosa che passava attraverso di lei, qualcosa che la attraversava e la scuoteva quanto scuoteva me. Era come se fossimo diventate, per quei momenti, due parti di un unico corpo che finalmente si permetteva di sentire.

La sorella maggiore, invece, era rimasta in piedi accanto a noi, immobile e apparentemente impassibile. I suoi occhi erano fissi su di me, ma non riuscivo a leggere nulla nella sua espressione. Sembrava quasi impenetrabile, come se fosse protetta da una corazza invisibile che le permetteva di osservare senza essere toccata. Aveva i capelli raccolti in una coda severa e le braccia incrociate sul petto, e per un momento ho pensato che forse non sarebbe successo nulla con lei, che forse sarebbe rimasta sempre al di là di quella barriera che sembrava aver costruito intorno a sé.

Invece, quando la seduta è finita e ho iniziato a parlare, ho visto i suoi occhi cambiare. Lentamente, come se qualcosa dentro di lei si stesse sciogliendo, ho visto apparire una lucidità che non riusciva più a nascondere. E quando mi ha parlato, la sua voce era diversa, più calda, più umana. Era come se anche lei fosse stata toccata da quello che era successo, come se anche lei, nonostante la sua apparente freddezza, fosse stata raggiunta da qualcosa che non aveva previsto.

Il tuo bloccaggio viene da tua madre“, mi ha detto, e quelle parole sono cadute nella stanza come pietre in uno stagno immobile. Ho sentito il mio corpo irrigidirsi istintivamente, come se si stesse preparando a difendersi da un attacco che conosceva bene. Perché era vero, terribilmente vero, e sentirmelo dire da una sconosciuta mi ha fatto l’effetto di un pugno nello stomaco.

Come fai a saperlo?” ho chiesto, ma la mia voce era uscita più sottile del solito, quasi un sussurro. Lei ha sorriso, ma non era un sorriso di superiorità o di compiacimento. Era un sorriso triste, come se anche lei portasse dentro di sé il peso di madri difficili e di addii mancati.

È scritto nel tuo corpo“, mi ha risposto la sorella più giovane, quella che ancora aveva le mani leggermente tremule. “Nelle tue spalle, nella tua mascella, nel modo in cui trattieni il respiro quando pensi a lei. È tutto lì.”

E allora ho iniziato a parlare. Ho raccontato di mia madre, della sua malattia che era arrivata come un fulmine in una giornata serena, di come in pochi mesi avesse trasformato la donna forte e testarda che conoscevo in un fantasma che si aggirava per casa senza riuscire più a riconoscersi. Ho raccontato delle nostre litigate, sempre più frequenti man mano che lei si ammalava, come se la rabbia fosse l’unica emozione che riuscivamo ancora a condividere.

Litigavamo sempre“, ho detto, e la mia voce si è incrinata. “Sempre. Anche quando era già malata, anche quando sapevamo entrambe che il tempo stava finendo. Non riuscivamo a smettere di farci del male. Era come se fosse l’unica cosa che sapessimo fare insieme.”

La sorella maggiore si è seduta accanto a me, e per la prima volta ho visto le sue mani, che fino a quel momento aveva tenuto nascoste dietro la schiena. Erano mani da lavoratrice, con le dita corte e le unghie tagliate, mani che avevano conosciuto la fatica e probabilmente anche il dolore. Quando le ha posate sulle mie, ho sentito un calore che non mi aspettavo.

Dimmi dell’ultima volta“, mi ha chiesto, e io ho saputo immediatamente di cosa stava parlando. Dell’ultima volta che avevo visto mia madre viva, dell’ultima volta che avevamo parlato, dell’ultima volta che avevamo litigato.

Era a letto“, ho iniziato, e mentre parlavo ho sentito le lacrime iniziare a premere dietro gli occhi. “Era a letto da giorni, non riusciva quasi più a mangiare. Io ero andata a trovarla con una torta che avevo fatto, quella che le piaceva tanto quando ero piccola. Pensavo che forse… che forse sarebbe stato un modo per dirle che le volevo bene senza doverlo dire davvero.”

La sorella più giovane si è avvicinata e si è seduta dall’altra parte, cosicché io ero in mezzo a loro due, circondata da una presenza che non sentivo da tanto tempo. Era come essere protetta, come avere finalmente qualcuno che poteva reggere il peso di quello che stavo per dire.

Ma lei non ha voluto assaggiare nemmeno un pezzetto“, ho continuato. “Ha detto che sapeva di medicina, che tutto sapeva di medicina ormai. E io mi sono arrabbiata. Le ho detto che stava esagerando, che doveva sforzarsi di mangiare, che non poteva arrendersi così. E lei mi ha urlato contro, mi ha detto che non capivo niente, che non sapevo cosa significasse vivere in un corpo che non ti appartiene più, che non ti obbedisce più. E io le ho urlato a mia volta, le ho detto che stava diventando insopportabile, che non si poteva neanche più stare nella stessa stanza con lei.”

Le mie mani stavano tremando mentre parlavo, e ho sentito le loro dita stringere le mie con più forza, come se volessero impedire che quelle parole mi portassero via completamente.

E poi me ne sono andata“, ho sussurrato. “Me ne sono andata sbattendo la porta, e quella è stata l’ultima volta che l’ho vista cosciente. È morta tre giorni dopo, e io non le ho mai chiesto scusa. Non le ho mai detto che le volevo bene. Non le ho mai detto che avevo terribilmente paura di perderla.”

Il silenzio che è seguito è stato denso, pieno di tutto quello che non riuscivo ancora a dire. La sorella maggiore ha iniziato a massaggiarmi le mani con gesti lenti e precisi, come se stesse lavorando su muscoli che non sapevo nemmeno di avere contratti.

E tuo fratello?” ha chiesto la sorella più giovane. “Come ha vissuto tutto questo?

Ho alzato lo sguardo e ho visto che anche lei aveva gli occhi lucidi, come se la mia storia stesse risvegliando qualcosa anche in lei. Ho pensato a mio fratello, che allora aveva dodici anni e che aveva assistito a tutte quelle litigate stando in silenzio dietro la porta della cucina, credendo che nessuno se ne accorgesse.

Dopo la morte di mia madre, sono stata io a prendermi cura di lui“, ho detto. “Papà non riusciva più a fare niente. Beveva, stava chiuso in camera per ore, a volte dimenticava persino di andare al lavoro. Io avevo diciannove anni e mi sono ritrovata a fare la madre a un bambino che aveva appena perso la sua. Gli preparavo la colazione, lo accompagnavo a scuola, lo aiutavo con i compiti. Cercavo di essere per lui quello che mia madre non riusciva più a essere nemmeno per me.

La sorella maggiore ha annuito, come se conoscesse bene quel tipo di responsabilità prematura, quel dover crescere troppo in fretta per supplire ai vuoti che gli adulti lasciano.

“Ma poi sei dovuta andare via“, ha detto, e nella sua voce c’era una certezza che mi ha sorpreso.

“, ho confermato. “Sì, sono dovuta andare via. Una sera papà era più ubriaco del solito, e quando gli ho detto che doveva smetterla, che suo figlio aveva bisogno di lui, mi ha tirato una bottiglia di whisky in testa. Non mi ha colpito, ma è andata a spaccarsi contro il muro proprio accanto alla mia faccia. E ho capito che se fossi rimasta, prima o poi mi avrebbe fatto davvero male.”

Le lacrime ora scendevano liberamente, e io non cercavo più di fermarle. Era come se ogni parola che usciva dalla mia bocca portasse via un pezzetto di quel dolore che tenevo chiuso dentro da anni.

Così ho preso le mie cose e sono andata via. Ho lasciato mio fratello lì, con un padre che non era più un padre e senza una madre che non c’era più. E probabilmente lui l’ha vissuto come un abbandono. Probabilmente pensa ancora che io l’abbia abbandonato quando aveva più bisogno di me.”

La sorella più giovane si è alzata e ha iniziato a camminare per la stanza, come se le mie parole l’avessero agitata troppo per restare ferma. I suoi passi erano leggeri ma decisi, e ogni tanto si fermava per guardarmi come se stesse vedendo qualcosa che io non riuscivo a vedere.

C’è dell’altro“, ha detto alla fine. “C’è qualcosa di più profondo, qualcosa che parte da ancora più lontano.” Si è fermata davanti a me e mi ha guardato negli occhi con un’intensità che mi ha fatto sentire nuda. “Non hai mai accettato davvero di essere lesbica, vero?

Quelle parole sono cadute nella stanza come un macigno, e io ho sentito il mio corpo irrigidirsi completamente. Era come se qualcuno avesse toccato il nervo più scoperto, quello che tenevo nascosto anche a me stessa. Ho aperto la bocca per rispondere, ma non è uscito niente. Solo un soffio d’aria, un tentativo di parola che si è dissolto prima di diventare suono.

Come…” ho iniziato, ma la voce mi si è spezzata. “Come fai a saperlo?

La sorella maggiore si è alzata e ha iniziato a camminare intorno a me, studiandomi come se fossi un libro aperto che lei riusciva a leggere senza difficoltà. “È nel modo in cui tieni le spalle“, ha detto. “Nel modo in cui serri la mascella quando parli della tua compagna. Nel modo in cui eviti di dire certe parole, come se pronunciarle ad alta voce potesse renderle troppo reali.”

Ma io ho un blog“, ho balbettato. “Il diario di una Lella. Scrivo storie, parlo di queste cose…”

Scrivere è diverso dal vivere“, ha detto la sorella più giovane, tornando a sedersi accanto a me. “Scrivere ti permette di mantenere una distanza, di raccontare senza mai davvero sentirti esposta. Ma vivere… vivere richiede di abitare completamente quello che sei, senza scuse e senza nascondigli.”

Ho sentito una rabbia improvvisa salire dal petto, una rabbia che non sapevo nemmeno di avere. “E chi ti dice che io non vivo quello che sono?” ho pensato, ma anche mentre pensavo quelle parole sapevo che erano false. Sapevo che avevano ragione, che c’era una parte di me che non avevo mai davvero abbracciato, che tenevo sempre a distanza di sicurezza.

Il tuo corpo te lo dice“, ha risposto la sorella maggiore. “Le tue spalle sono curve perché porti il peso della vergogna. La tua mascella è contratta perché tieni chiuse dentro di te le parole che non hai mai osato pronunciare. Il tuo ginocchio ti fa male da quando ti sei operata perché il dolore fisico è l’unico modo che hai trovato per esprimere quello emotivo.”

E mentre parlava, ho sentito che aveva ragione. Ho sentito il peso sulle spalle, la tensione nella mascella, il dolore al ginocchio che mi accompagnava da mesi. Era come se tutto il mio corpo fosse diventato il deposito di una sofferenza che non sapevo come affrontare.

E la voce“, ha aggiunto la sorella più giovane. “La tua voce è sempre trattenuta, sempre controllata. Hai paura di farla uscire davvero, di farla diventare piena e rotonda, perché hai paura di quello che potrebbe dire se le dessi completa libertà.”

Ho chiuso gli occhi e ho cercato di respirare profondamente, ma anche il respiro sembrava bloccato da qualche parte tra il petto e la gola. Era come se tutto il mio corpo fosse diventato una prigione che io stessa avevo costruito, mattone dopo mattone, anno dopo anno.

Mia madre lo sapeva“, ho sussurrato alla fine. “Quando ero adolescente, lo sapeva. Non me l’ha mai detto direttamente, ma lo sapeva. E io vedevo nei suoi occhi una delusione che non riusciva a nascondere. Come se avessi tradito le sue aspettative, come se fossi diventata qualcosa che lei non poteva accettare.”

La sorella maggiore si è fermata davanti a me e ha posato le manisulle mie spalle, con una fermezza che mi ha sorpreso. “E se invece quella delusione che vedevi nei suoi occhi fosse stata la sua, non la tua?” mi ha chiesto. “Se fosse stata lei a non riuscire ad accettare una parte di sé che riconosceva in te?”

Quelle parole mi hanno attraversato come una lama, aprendo una ferita che non sapevo nemmeno di avere. Ho alzato lo sguardo e ho visto che anche lei aveva gli occhi lucidi, come se parlando di mia madre stesse parlando anche di qualcosa che la riguardava direttamente.

C’è un’altra presenza qui“, ha detto la sorella più giovane, e la sua voce si è fatta più sottile, quasi sussurrata. “Un uomo anziano. I capelli bianchi, gli occhi chiari. Ti assomiglia.”

Mio nonno“, ho mormorato. “Mio nonno paterno. È morto qualche anno prima di mia madre.”

Lui è con lei“, ha continuato. “Li vedo insieme. Lei sembra più serena, più giovane. Come se avesse ritrovato una parte di sé che aveva perso quando era viva.”

Ho sentito qualcosa muoversi dentro di me, qualcosa che non riuscivo a nominare ma che era caldo e doloroso allo stesso tempo. L’idea di mia madre serena, finalmente libera dal peso della malattia e della rabbia che l’aveva consumata negli ultimi mesi, mi ha riempito di una tenerezza che credevo di aver perduto.

E ti sta cantando“, ha aggiunto la sorella più giovane, chiudendo gli occhi. “Una canzone che cantava quando eri piccola. Mentre coglieva i fiori nel giardino.”

E allora l’ho sentita. Non so come, non so perché, ma l’ho sentita davvero. La sua voce, giovane e chiara, che cantava quella vecchia canzone che mi cantava quando non riuscivo ad addormentarmi. E per la prima volta da quando era morta, non ho provato rabbia o dolore. Ho provato solo una nostalgia dolce, quasi consolatrice.

Adesso parliamo del futuro“, ha detto la sorella maggiore, tornando a sedersi accanto a me. “C’è un progetto di maternità nella tua vita, vero?

Ho annuito, sorpresa che anche questo fosse così evidente. ““, ho sussurrato. “La mia compagna ed io ne parliamo spesso. Ma ho paura.”

Paura di cosa?”

Di non essere all’altezza. Di ripetere gli errori di mia madre. Di essere una madre terribile come lei è stata con me.”

La sorella più giovane si è alzata e ha iniziato a massaggiarmi la mascella con gesti lenti e precisi, come se stesse cercando di sciogliere anni di tensione accumulata. “Ti vedo con un bambino in braccio“, ha detto. “Ti vedo serena, completa. Non sarai tua madre. Tu hai già fatto un lavoro che lei non è mai riuscita a fare.”

Quale lavoro?”

Quello di guardarti dentro, di accettare le tue ferite senza negarle. Quello di cercare di capire invece di fuggire. Tua madre non è mai riuscita a farlo. Tu sì.

Le ho guardate entrambe, queste due donne che in poche ore erano riuscite a toccare parti di me che credevo sepolte per sempre. La sorella maggiore con la sua apparente freddezza che nascondeva una profonda capacità di comprensione. La sorella più giovane con la sua sensibilità che le permetteva di vedere oltre la superficie delle cose.

Cosa devo fare adesso?” ho chiesto, e la mia voce era diversa, più piena, meno trattenuta.

Continua a scrivere, a buttar fuori“, ha risposto la sorella più giovane. “Non cercare di fermare quello che è iniziato oggi. Il tuo corpo ha iniziato a parlare e ha ancora molto da dire. Ascoltalo, anche quando ti spaventa.”

La sorella maggiore si è alzata e ha preso un piccolo contenitore di olio profumato da un tavolo vicino alla finestra. “Questi sono per te“, ha detto, versando qualche goccia sulle sue dita. “Massaggia la mascella ogni sera prima di andare a dormire. Piccoli cerchi, molto lenti. E mentre lo fai, ripeti a voce alta: ‘Io sono’. Solo questo. ‘Io sono’.

Io sono cosa?” ho chiesto.

Quello che sei. Senza aggettivi, senza spiegazioni. Solo ‘io sono’. Il resto verrà da solo.

Quando sono uscita da quella stanza, il mondo mi sembrava diverso. Non migliore, non peggiore, ma diverso. Come se i colori fossero più intensi, i suoni più definiti, l’aria più densa di possibilità. Ho camminato per le strade sentendo ancora quel tremore sottile che mi attraversava, ma ora non mi faceva più paura. Era come se fosse diventato parte di me, un nuovo modo di essere che non conoscevo ma che riconoscevo.

Quella sera, davanti allo specchio del bagno, ho guardato il mio volto come se lo vedessi per la prima volta. Ho visto le rughe sottili agli angoli degli occhi, ereditate da mia madre. Ho visto la linea della mascella, sempre contratta, sempre tesa. Ho visto le spalle curve, piegate dal peso di anni di non-detto.

E poi ho iniziato a massaggiare la mascella, come mi avevano insegnato. Piccoli cerchi, molto lenti, mentre ripetevo a voce alta: “Io sono. Io sono. Io sono.

Le prime volte, le parole mi sono uscite strozzate, quasi sussurrate. Ma poi, piano piano, sono diventate più chiare, più rotonde. E con ogni ripetizione, sentivo qualcosa sciogliersi dentro di me, qualcosa che era stato ghiacciato per troppo tempo.

Non so ancora cosa farò di tutto questo. Non so ancora come integrerò quello che ho scoperto oggi nella mia vita di tutti i giorni. Non so ancora come riuscirò ad abbracciare completamente quella parte di me che per anni ho tenuto nascosta anche a me stessa.

Ma so che qualcosa è cambiato. So che quel tremore che ho sentito oggi non era solo mio, ma apparteneva a una catena di donne che prima di me hanno tremato, hanno lottato, hanno cercato di trovare la loro voce. So che mia madre, nonostante tutto, mi ha dato qualcosa di prezioso: la capacità di riconoscere il dolore e di non arrendermi ad esso.

E so che quando arriverà il momento, quando terrò in braccio quel bambino che ora esiste solo nei progetti e nei sogni, sarò pronta. Non perché sarò perfetta, ma perché avrò imparato a tremare senza vergogna, a sentire senza difendermi, a essere senza scuse.

Stanotte, per la prima volta da anni, ho sognato mia madre. Non malata, non arrabbiata, ma giovane e bella come nelle foto che conservo nel cassetto. Cantava quella vecchia canzone mentre coglieva fiori in un giardino che non avevo mai visto ma che riconoscevo come casa. E quando mi sono svegliata, invece della solita morsa al petto, ho sentito solo una dolce nostalgia e la certezza che, da qualche parte, lei mi stava finalmente vedendo per quello che sono.

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