Quando le firme superano quota un milione in un’iniziativa cittadina europea, il segnale che arriva è chiaro, forte e difficile da ignorare. A metà maggio 2025, più di un milione di cittadine e cittadini dell’Unione europea hanno aderito a una petizione che chiede il divieto delle cosiddette “terapie di conversione” contro le persone LGBTQ+, ovvero quell’insieme eterogeneo di pratiche che pretendono di correggere o reprimere l’orientamento sessuale o l’identità di genere delle persone omosessuali, bisessuali e transgender. Un milione di voci che pongono una questione etica e giuridica davanti alla Commissione europea, ora obbligata a rispondere pubblicamente.
Le terapie di conversione, conosciute anche come pratiche riparative, sono state oggetto di ripetute condanne da parte di istituzioni internazionali, organizzazioni per i diritti umani e società scientifiche. La loro natura varia da tentativi di consulenza psicologica a metodi coercitivi più aggressivi, come esorcismi, trattamenti farmacologici non consensuali e in alcuni casi tecniche invasive che sfiorano, e in certi contesti superano, la soglia della tortura. La logica di fondo è sempre la stessa: la negazione dell’identità della persona come legittima, come naturale, e la sua ricondotta forzata a una presunta norma eterosessuale o cisgender.
Secondo l’Ilga-Europe, solo otto paesi dell’Unione hanno attualmente una legislazione nazionale che vieta esplicitamente queste pratiche: Francia, Belgio, Germania, Malta, Portogallo, Spagna, Grecia e Cipro. In altri Stati membri, l’assenza di una norma specifica rende difficile intervenire in maniera tempestiva, anche quando emergono prove chiare di abusi. L’Italia, ad oggi, non dispone di una legge che proibisca le terapie di conversione. Esistono proposte, ci sono state discussioni parlamentari, ma il testo normativo non ha mai raggiunto l’aula per una votazione definitiva. Questo vuoto normativo non è solo una questione simbolica: implica che, in molti casi, le vittime di queste pratiche non abbiano strumenti giuridici chiari per ottenere giustizia, e che chi le promuove agisca in una zona grigia, protetta dalla vaghezza della legge.
In Francia, invece, la legge esiste dal 2022 e prevede pene fino a due anni di reclusione e 30.000 euro di multa per chiunque promuova o eserciti terapie di conversione. Il voto favorevole all’unanimità dell’Assemblea nazionale ha rappresentato una presa di posizione netta, sostenuta da una mobilitazione trasversale di forze politiche e dalla società civile. Un percorso simile è stato seguito dalla Germania, che già nel 2020 ha approvato un divieto per i minori e per tutti i casi in cui la persona sia ritenuta incapace di dare un consenso libero e informato.
L’iniziativa europea lanciata da Mattéo Garguilo, un giovane studente francese di 21 anni, nasce proprio in questo contesto frammentato. Garguilo ha dichiarato all’AFP di aver voluto “dare voce a chi finora non è stato ascoltato“, spiegando come il suo obiettivo non sia solo giuridico ma anche culturale: portare il tema all’attenzione pubblica, stimolare discussioni, rompere il silenzio attorno a queste violenze, spesso giustificate con argomentazioni religiose o pseudoscientifiche.
La campagna ha trovato rapidamente eco sui social, con testimonial importanti come la cantante belga Angèle, che ha aderito all’iniziativa e invitato i suoi follower a fare altrettanto. Anche figure politiche di rilievo hanno espresso sostegno: Gabriel Attal, capo dei deputati macronisti e leader del partito Renaissance, ha parlato di “una petizione coraggiosa”; Marine Tondelier, esponente dei Verdi francesi, ha definito le terapie di conversione “una negazione dei diritti fondamentali”; mentre Jean-Luc Mélenchon, leader de La France Insoumise, ha ribadito che “non c’è nulla da guarire” e che si tratta di pratiche barbare.
L’eco della petizione ha raggiunto anche l’Italia, dove alcune associazioni, come Arcigay, Certi Diritti e il Centro Risorse LGBTI, hanno rilanciato l’iniziativa sui propri canali, ricordando le testimonianze di persone che hanno subito questi trattamenti in contesti religiosi o familiari. Rosario Lonegro, ex seminarista siciliano, ha raccontato in più occasioni alla stampa di essere stato sottoposto a percorsi di “correzione” dell’orientamento sessuale, consistenti in isolamento, digiuni forzati, colloqui pressanti con figure ecclesiastiche. Il suo caso, come altri simili, ha suscitato indignazione ma non ha trovato ancora una risposta legislativa adeguata.
In un contesto europeo in cui i diritti delle persone LGBTQ+ sono sempre più al centro di dibattiti e, in alcuni casi, di tentativi regressivi, l’iniziativa promossa da Garguilo rappresenta un banco di prova per le istituzioni. La Commissione europea, pur non essendo obbligata a trasformare la proposta in una legge, ha il dovere di esprimersi pubblicamente entro sei mesi. Dovrà ricevere gli organizzatori, valutare la conformità della proposta con i trattati e decidere se avviare o meno un iter legislativo. Il rischio, come spesso accade in ambito europeo, è che il processo si impantani in equilibri politici o che venga rimandato a iniziative dei singoli Stati membri, perpetuando così la disomogeneità normativa.
Tuttavia, al di là della risposta formale, il successo dell’iniziativa ha già prodotto effetti visibili: ha portato alla luce situazioni spesso ignorate, ha generato una presa di parola collettiva, ha mostrato che una parte significativa della popolazione europea considera intollerabili pratiche che fino a poco tempo fa erano tollerate o addirittura difese. Nei dibattiti pubblici e nei media, l’espressione “terapie di conversione” inizia a perdere la patina di neutralità linguistica e ad apparire per quello che è: una definizione che nasconde violenza e discriminazione.
Il tema tocca un nodo profondo della relazione tra libertà personale, autodeterminazione e ruolo dello Stato nella tutela dei diritti fondamentali. In un’epoca in cui la politicizzazione dell’identità di genere e dell’orientamento sessuale alimenta polarizzazioni e manipolazioni mediatiche, il diritto a non subire tentativi di correzione forzata dovrebbe essere una soglia minima, un principio basilare della convivenza democratica. Eppure, questa soglia non è ancora garantita ovunque, e nemmeno in unione europea.
Rimane aperta, quindi, la domanda sul futuro: la Commissione europea deciderà di intervenire con un regolamento vincolante per tutti i Paesi membri? O lascerà ai singoli Stati la responsabilità di legiferare, accettando le attuali disuguaglianze tra chi può contare su tutele effettive e chi no? E l’Italia, alla luce di questa mobilitazione continentale, continuerà a restare indietro o riuscirà finalmente a introdurre una norma chiara e inequivocabile?
Le risposte, probabilmente, arriveranno nei prossimi mesi. Intanto, un milione di firme segnano una pagina di consapevolezza. Perché dietro ogni clic, ogni adesione, ogni condivisione, c’è un’idea precisa di Europa: una comunità che non considera l’identità delle persone come un errore da correggere, ma come una ricchezza da tutelare. Una comunità in cui, forse, nessuno debba più raccontare di essere stato costretto a cambiare ciò che è per essere accettato.