Agatha e Rio a Westview: come un segugio sulla pista

Le utime dal diario

La lella
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Lella fin da piccola, ho sempre seguito questo motto: "sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo". Credo che la sessualità e l’identità siano elementi soggettivi, tanto che qualsiasi regola non sarebbe mai quella perfetta. Nessuno di noi è solo una cosa e non esiste una definizione che possa andare bene sia per me che per te. A dire il vero, esiste un’etichetta in cui mi sento perfettamente a mio agio ed è proprio l’essere me stessa, perché è fatta su misura per me, racchiude tutto ciò che sono ed è pronta ad accogliere ciò che sarò.

Westview, 2023. L’ombra della quercia si stende come un sipario di velluto sulla strada troppo pulita, sulle facciate in ordine finto, sui vialetti che odorano di candeggina e bugie. Rio resta lì, immobile, le dita che lisciando il rever del tailleur tradiscono un’agitazione che il volto non ammette. Il vento muove appena le foglie e lei pensa che il mondo dei vivi, quando decide di farsi teatro, sa essere molto più inquietante del regno dei morti. Nel regno dei morti tutto è dichiarato, perfino l’assenza ha il suo suono. Qui, invece, l’assenza indossa un rossetto rosa pesca e ti saluta col gomito mentre porta fuori la spazzatura.

«Respira,» si dice, ma il diaframma scatta come uno sportello arrugginito. Cinquantasei anni. Cinquantasei anni da quando ha visto Agatha com’era, non com’è costretta ad apparire qui. Ogni giorno, negli ultimi cinquantasei, lei ha annusato l’aria come un cane da caccia, ha infilato il naso tra pagine strappate di grimori, in pieghe di dimensioni dove la polvere è memoria, tra filamenti di destino appesi come ragnatele. Avanti, indietro, lenti, poi improvvisi. Ogni pista finiva nel nulla, ogni nulla conteneva un granello che profumava di lei. Ed eccola, adesso, quella casa. Quella porta. Quel sorriso che non è un sorriso ma un riflesso, un comando.

Rio si aggiusta il colletto e si sente ridicola. Si è messa un completo grigio antracite, scarpe basse per muoversi in fretta, i capelli raccolti con una precisione che sa di armatura. La sua natura, oggi, si fa ufficio. Ha deciso che il dolore ha bisogno di una scrivania. E però, quando il suo sguardo si posa su di lei, su Agatha che ride per qualcosa che nessuno davvero ha detto, la scrivania prende fuoco.

«Non sei tu,» mormora, senza voce. Le parole restano tra i denti come una preghiera sbagliata. Agatha appoggia una spalla al muretto del vicino, indossa una maglietta sbiadita di una band che non ha mai ascoltato e un paio di jeans che gridano “svendita di quartiere”. Il viola, il nero, l’argento dei suoi giorni veri sono evaporati; al loro posto, un beige che pretende di essere serenità. Rio sente un prurito alle mani. Potrebbe spaccare quel beige con due dita, come carta crespa. Potrebbe, e non deve. L’incantesimo è spesso, foderato di una magia che sa di mammole bruciate e metallo caldo. Wanda Maximoff ha fatto bene i compiti.

«Sei un genio e un disastro,» pensa Rio, indirizzando la frase a quella rossa invisibile che tiene i fili. «Le hai tolto tutto con la dolcezza con cui si rifà un letto.» E dentro quel letto Agatha dorme a occhi aperti, parla coi vicini, sorride a un uomo che passa con un cesto di panni puliti – un uomo che non è nessuno, e proprio per questo fa male.

«Buongiorno, Agnes!» grida la tipa del civico 12, il braccio alzato come un parabrezza. Agnes. Il nome finge di essere un soprannome. Rio deglutisce. Nel suono di quelle due sillabe c’è l’uncino. Lo sente agganciarsi in fondo allo stomaco, tirare piano. Vorrebbe attraversare la strada, bussare, prendere Agatha per i polsi, dirle “smettila”, dirle “ricordati”. Ma ricordare è un gesto chirurgico e lei, oggi, non ha bisturi, solo una voglia feroce di rompere qualcosa.

«Non rompere niente,» si dice, e il comando viene da lontano, da quella parte di lei che ha portato bimbi oltre il fiume, vecchi oltre il dolore, amanti oltre la bugia. La voce interiore è una monotonia rassicurante: niente movimenti bruschi, niente increspature. Ma poi Agatha si volta, per un secondo, come attratta da un grumo d’aria. Gli occhi le tremano — un brivido, una fessura – e Rio sente che la pista è buona, che il segugio dentro di lei tira il guinzaglio.

Le mani finiscono alle labbra. Le morde, piano. È una superstizione sciocca: quando il futuro scricchiola, trattieni i canini. «Agatha, dove sei?» Lo pensa, ma la domanda attraversa la strada come una corrente, si appoggia al legno della porta, scivola sotto come fumo. Nessuna risposta. Solo il quartiere che tossisce il suo perbenismo. Un tosaerba parte a tradimento due case più in giù, sempre alla stessa ora. Rio sorride senza allegria. Questo posto è un incantesimo fatto di orari.

Si muove di un passo, poi un altro. La corteccia della quercia le graffia la giacca, lascia una traccia chiara. «Ottimo, adesso sembri davvero una che aspetta il figlio dalla lezione di violino.» Vorrebbe ridere e non ci riesce. L’aria sa di detersivo e americana media. In quel profumo di innocenza si nasconde il morso.

Un uomo spunta dall’angolo con un cesto pieno di biancheria piegata. Finge di non vedere la donna in ombra, ma i suoi occhi la sfiorano e scivolano via come se avessero toccato un coltello. La banalità è la cosa più armata che Rio abbia mai incontrato. «Una bambola da vestire,» pensa, guardando le camicie che passano. «Una bambola che non sceglie il proprio fiocco.» Il cuore le dà un colpo. Le torna in mente una risata, una notte con la luna talmente rossa da sembrare una ferita. Agatha che dice “non temere”, e poi temere insieme, per gioco.

«Se Nicholas non fosse stato portato via, lei sarebbe rimasta.» Il pensiero arriva senza bussare, con le scarpe sporche. Rio non lo allontana. Per anni ha provato a cacciarlo dal salotto della mente, l’ha rinchiuso nello sgabuzzino delle cose da non dire. Oggi lo lascia sedere. Lo guarda negli occhi. «Se lui fosse qui, Agatha non sarebbe questa fotografia sbiadita. Avremmo ancora giorni che puzzano di farina, piatti da leccare, dita sporche, e tu mi guarderesti come se fossi un luogo e non un confine.» Sente il caldo nel petto trasformarsi in una lama. Sì, ha odiato quel bambino. Non lui – l’assenza che ha lasciato, la stanza vuota che ha fatto di lei un’eco. E la colpa è una coperta corta: tiri da una parte, resti nuda dall’altra.

«Basta,» si dice. «Sono qui per lei.» Solleva lo sguardo ed ecco: i fili. Sottili, tesi come tele nel sole, ma visibili se sai dove guardare. La magia scarlatta è un profumo prima ancora che un colore: sa di fragole troppo mature e ferro, di sbucciature sui ginocchi e di una carezza che ti chiede perdono mentre te la dà. Avvolge Agatha come un foulard che non si toglie, le fascia le caviglie, i polsi, la lingua. Rio socchiude gli occhi, sposta l’attenzione come un’antenna, e li sente. Laggiù, dietro ogni gesto “normale”, dietro ogni risata registrata, si tende un filo. Basterebbe un’unghia per farlo vibrare, eppure l’unghia dovrebbe essere accordata al millimetro o si spezzerebbe tutto: la stanza, il quartiere, lei.

«Wanda Maximoff,» pronuncia piano, per sentire come suona addosso al palato. È un nome che riempie la bocca, come un frutto di cui non sai se mangiare la buccia. La rabbia sale, stende la sua lingua biforcuta. «Le hai tolto ogni colore. L’hai resa gentile, e la gentilezza così, imposta, è crudeltà in guanti bianchi.» Un passo in avanti, un passo indietro. Potrebbe affondare le dita nell’ordito e strapparlo come si strappa un lenzuolo bagnato. Potrebbe. E la voce interiore insiste: «Cambia nulla, o perderai tutto.» È una minaccia, ma anche una regola d’arte. A volte per liberare bisogna prima imparare a stare fermi.

Ogni giorno passa, e niente cambia. La domenica odora di barbecue, il mercoledì ha la voce di una presentatrice di cucina, il lunedì si lamenta di essere lunedì. Rio, che ha visto ere scivolare come teli sul filo, si sorprende di quanto possano essere pesanti ventiquattr’ore qui. Ogni ora è un barattolo etichettato. Ogni barattolo contiene la stessa marmellata. Agatha esce, saluta, ride, torna dentro. Ha il passo di chi ha imparato il marciapiede a memoria. Rio si sposta tra gli alberi, cambia angolo, misura, distanza. Ogni tanto chiude gli occhi e allunga i sensi: le note sottili della magia continuano, instancabili, a tenere il ritmo. Niente sbavature, niente cedimenti. L’illusione è una sarta puntigliosa.

«Se lo rompessi?» si chiede, e in quell’istante si vede, con una crudezza che quasi la diverte: lei che attraversa la strada, bussa, sorride come si sorride prima di pugnalar qualcuno, poi le mani, poi i fili che cedono, una luce troppo forte, e tutto ciò che resta è un odore di plastica bruciata. Agatha senza memoria, Agatha che la guarda come si guarda uno sconosciuto sul treno. Agatha che non la perdona di averla svegliata dal sogno. Il terrore che le scorre nel petto ha la consistenza del latte rovesciato: scivola dappertutto, appiccica. Rio, che odia la paura come si odia un debito, la riconosce e le fa spazio. «Resta pure,» le dice. «Ma non guidare.»

Una portiera sbatte. Un uomo passa, rumoroso come un cattivo pensiero, le suole che picchiano sul marciapiede con un ritmo di batteria impaziente. Rio si ritrae, si appiattisce contro la corteccia. Non vuol farsi vedere, non qui, non così. Il tipo sparisce dietro un angolo, il quartiere ritorna al suo frinire impercettibile. Lei si concede un’ultima occhiata alla casa. Non vede Agatha, ma la sente. O meglio: sente il punto esatto in cui lei finisce e il copione comincia. È uno scarto minuscolo, quasi un inciampo. Eppure basterebbe quello, se avesse abbastanza tempo e grazia, per tirarne fuori una porta.

«Dove sei, Agatha?» sussurra una seconda volta, più piano, più vicino alla terra. La risposta non viene da una finestra o da una fessura, ma dal suo stesso corpo. Le mani smettono di tremare, la gola si apre. La speranza, una piccola fiamma cocciuta, si rialza come fa sempre. “Sono qui,” sembra dire, “ma sono anche altrove, e tu lo sai. Trovami la strada.”

E allora Rio la immagina. Non Agnes, no. Agatha. Il collo lungo, la spalla spavalda, l’ironia appuntita come una forcina per capelli. La ricorda a Berlino, una stanza piena di fumo e presunzione, la sua voce che graffia, le note storte che si piegano, e poi il silenzio sul pavimento, loro due sdraiate a cercare un soffitto che non faccia domande. La ricorda a Marsiglia, con la peste che brucia e la morte che non fa paura, anzi consola. La ricorda su quella nave, oceano scuro, il caos come un profumo che sceglie di indossare solo in compagnia. La ricorda e si ricorda. Che il loro patto non è mai stato di zucchero.

«Ok,» dice infine, rivolgendosi alla quercia, che almeno ascolta. «Allora facciamola bene.» Si stacca dal tronco, raddrizza le spalle. Il piano che non è un piano comincia come cominciano tutte le cose serie: con un passo indietro. Bisogna guardare il quadro dall’uscita della sala. Bisogna smettere di volerlo correggere con la saliva.

Cammina lungo il perimetro del quartiere, seguendo il bordo dove l’aria cambia densità. Lì la magia scarlatta sporge come una cucitura. Con la coda dell’occhio intravede le onde di tessuto che coprono gli angoli, soprattutto dove il reale è più difficile da imitare: un parco giochi con due altalene perfettamente sincrone, un cane che non abbaia mai se non quando il cielo è pulito, una nuvola che si ripete ogni giovedì alle 16:07. Segna nella mente, fa spilli invisibili. Non le serve una mappa, le serve un ritmo. Ogni incantesimo ha il suo battito. Se lo trovi, puoi ballarci accanto senza farti schiacciare i piedi.

All’altezza del supermercato, la porta scorrevole la ignora. Perfetto. Essere ignorati in un luogo come questo è una medaglia. Prende una rivista a caso dal cestino dei volantini. Titoli che urlano offerte su bistecche felici e detersivi che sanno di limone triste. Sorride. Tutto qui proietta l’idea di una vita senza denti. Eppure, pensa, perfino la gomma più masticata conserva un’impronta. “Tu,” mormora tra sé, come se parlasse alla strega rossa e al quartiere insieme, “hai fatto un paradiso di plastica. Io cerco una scheggia vera.”

Ritorna alla quercia quando il sole finge di tramontare con una diligenza da ufficio comunale. Westview è un orologio che non sa d’imprevisti. Eppure, proprio mentre si rimette nell’ombra, succede una cosa minuscola: una risata sbaglia tempo. È un nulla, un respiro fuori metrica. Ma in quell’errore Rio sente Agatha. Non la versione addomesticata; quella vera, con l’idea cattiva che scintilla prima di una frase. La risata viene da dietro la porta. Qualcuno ha detto qualcosa di goffo, e lei ha risposto con una battuta troppo fine perché l’incantesimo la capisca. Il copione non la regge; le scappa un istante. Rio trattiene l’impulso di correre. Invece chiude gli occhi, lascia che quel suono si appoggi contro le ossa. «Brava,» pensa. «Fatti trovare.”

Non sta ferma, però. Non oggi. La stasi è stata la sua casa per troppo tempo. Oggi, mentre la sera si mette addosso il suo cardigan blu, lei decide che rischiare è più pietoso che pregare. Resta al confine della luce finché un’auto parcheggia, finché un vicino saluta, finché un altro rientra con una pizza che non raffredderà mai, e poi scivola tra i cespugli del giardino laterale, tocca il muro con il palmo. La magia lì vibra come un gatto che fa le fusa. Prende un respiro e sussurra il suo nome. Non quello finto. «Agatha.»

All’inizio è niente. Poi il niente si piega. Un’ombra dietro la tenda, un corpo che cambia peso sul piede. «Agatha,» ripete. La voce è un rematore paziente. Dall’altra parte, qualcosa scricchiola. L’incantesimo stringe, la casa fa la brava. Ma in mezzo a quel meccanismo c’è una vite che non ha voglia. «Se mi senti,» continua, «alza appena il mento.» Non lo dice forte; lo dice giusto. Dal living, la tv ride. La risata finge di essere di qualcuno. Nel finto spasso, un colpo secco, minimo. Il mento. Rio chiude gli occhi. Ringrazia una divinità che non sa mai da che parte stare. “È qui.”

Le serve tempo. Le serve una via che non sia un’ascia. Torna indietro, si rimette in ombra. Le braccia vorrebbero abbracciare una persona; abbraccia la corteccia. «Non ti lascerò,» promette. E mentre lo dice capisce che non sta promettendo salvataggi eroici o duelli scintillanti. Sta promettendo la cosa più noiosa e più feroce del mondo: restare. Un giorno, poi un altro. Portare caffè ai silenzi, fare la guardia ai millimetri.

La notte arriva, finalmente, senza chiedere passaporto. Westview la lascia entrare perché le luci dei lampioni sanno come fare amicizia con il buio. Rio si allontana dalla casa quanto basta per non essere un’ombra che fa ombra. Si siede sul marciapiede opposto, le ginocchia al petto, le mani infilate nelle maniche. Vorrebbe una sigaretta. Vorrebbe un rosmarino da sfregare tra le dita per sentire un odore vero. Vorrebbe Agatha che le dice “spostati, occupi la mia porzione di universo”. Al posto di tutto questo, ha il rumore delle unità esterne dei condizionatori e un cielo poco convinto. Per un attimo si chiede come si faccia a vivere qui senza impazzire. Poi si ricorda che impazzire non è sempre una cattiva idea.

«Ti troverò,» dice piano. È una frase da cinema, e lei lo sa. Ma dentro, la frase si siede in poltrona e mette i piedi sul tavolino. Non è un voto romantico: è un turno di lavoro. Domani tornerà. Dopodomani anche. Si eserciterà a picchiettare i fili senza strappare, a disturbare l’incantesimo come un rubinetto che perde. La magia rossa detesta le abitudini incrinate. La addestrerà, la scollerà un poco, con pazienza, con precisione. Le ombre le hanno insegnato che tutto è questione di luce laterale.

Si alza quando le finestre si spengono con la stessa obbedienza. Prima di andare, posa due dita sul cuore. Non è una scena, è una misura. Il battito, finalmente, non è un galloppo cieco. Ha un tempo. «Non ti deluderò, qualunque cosa serva per averti di nuovo.» Lo pensa come un giuramento segreto, e non osa aggiungere “mia”, perché l’amore, quello che regge gli incantesimi e li disfa, non vuole possessivi, vuole complicità. “Per averti vicina,” si corregge. “Per averti viva.”

La mattina dopo, Westview si stira. C’è un odore di caffè che non ha ancora attraversato un filtro. Rio è di nuovo lì, con una tazza vera tra le mani. L’ha comprata nel bar all’angolo, l’unico luogo dove l’illusione cede un millimetro: i biscotti sono davvero troppo secchi, e il cameriere sbaglia il resto. Le imperfezioni sono fessure. Si posiziona poco più avanti rispetto al giorno prima. I fili oggi vibrano su una tonalità appena diversa, come se la notte avesse accordato lo strumento a un’idea. «Buongiorno, Agnes!» urla la vicina. «Buongiorno!» risponde Agatha, e nella seconda o, minuscola, c’è una grinza. Rio la sente come si sente un sassolino nella scarpa quando hai le scarpe cucite su misura. La guarda uscire. Il jeans è lo stesso, la maglia anche. Eppure, nelle spalle, un castello di carte cambia disposizione.

«Ti piace?» chiede il vicino col cesto, indicando la maglietta con un marchio di una band inventata. «Sta benissimo a lei.» Rio fa un passo indietro. Non è ancora il momento di parlare con nessuno. Le parole, qui, sono materia infiammabile. Intanto, mentalmente, le infila in tasca: “Agnes”, “benissimo”, “lei”. Le tasche scoppiano. La verità, come sempre, pesa più della menzogna.

Nel primo pomeriggio, il sole finge di essere gentile. Un furgoncino consegna pacchi che non contengono nulla che non sia previsto dal copione. Rio scivola di nuovo sul lato ombra del giardino. Stavolta non chiama. Appoggia l’orecchio al muro. Da dentro, una musica. Non vera, una musica come la ricorderebbe qualcuno che non ha orecchie. Lei sorride. “Vuoi ballare, strega?” chiede al vuoto, e per un istante sente il vecchio brivido. Agatha e la sua mania di trasformare qualunque stanza in una sala da prove. La sua mania di provocare chiunque, sé compresa, fino a smascherarlo. “Hai sempre odiato l’intonazione più di me,” le dice a mezza voce. “Oggi accetteresti anche un do maggiore, se te lo offrissi con il fiocco giusto.” Le viene voglia di cantare. Non lo fa. Wanda ascolta. Wanda, quando ascolta, rifà il mondo nella sua testa e lo impone come si impone un sorriso alle fotografie.

Scollarsi un incantesimo è più simile al togliersi una ragnatela dal viso che a spezzare una catena. Richiede un gesto preciso e una calma sporca. Rio si concentra. Sceglie un punto, non a caso: il battiscopa, dove la magia, dovendo farsi pratica, si fa anche pigra. Sussurra una parola antica, una di quelle che non aprono portali ma li stancano. La casa sospira. Un’ombra scivola via, come un gatto che decide che quel divano non fa per lui. Dentro, Agatha lascia cadere una frase nel lavandino. Rio non sente le parole, solo la caduta. Poi l’acqua. «Brava,» pensa. «Sposta un cucchiaio, sposta un mondo.»

La sera del secondo giorno, qualcosa cambia. Piccolo, ma cambia. Agatha, rientrando, sfiora la cornice del quadro all’ingresso e la raddrizza di un millimetro verso sinistra. Rio, che lo guarda dal buio, trattiene un’esclamazione. L’incantesimo, al contrario, la voleva dritta di due gradi verso destra. È una pazza gioia, quella che le sale. Vorrebbe correre, bussare, abbracciare quel gesto come si abbraccia un naufrago. Invece resta dov’è, e lascia che la gioia le faccia tremare le ginocchia. «Ti trovo,» si ripete, «ti trovo così.»

Passano giorni che hanno il sapore di una goccia che cade nello stesso punto della pietra. La pietra non si lamenta; si lascia scavare. Rio, intanto, dorme poco e sogna peggio. Sogna una Westview piena di fili dove lei procede con una forbice da ricamo, taglia e unisce, sposta asole, cambia punto. Sogna Wanda che la guarda da lontano e sorride, sicura che nessuno può batterla alla pazienza. Sogna Agatha che si tocca i capelli e finalmente li sente. Al risveglio, riprende il turno. Ogni giorno si permette una domanda in più. Una volta dice il suo nome per intero, senza mordere le sillabe. Un’altra lascia cadere, nel giardino, un profumo che sa di rosmarino e notti estive. Un’altra ancora fischietta tre note di una canzone che a Berlino non è mai finita. Dall’altra parte, qualcosa, ogni volta, si tende, come una pantera sulla corda.

Un pomeriggio nuvoloso, mentre le nuvole fanno il loro giro obbligatorio, accade. La porta si apre e Agatha esce con un passo che non appartiene alla sceneggiatura. Non è sfrontato, non è timido. È un passo che sente il terreno. Rio, che ha imparato a stare, resta. Agatha si ferma a metà vialetto, guarda il cielo. Gli occhi, per un secondo, hanno il colore sbagliato. Il colore giusto. Quello che non è il pantone di nessun salotto. «Alza il mento,» pensa Rio, ma non serve. Il mento sale da solo. L’aria, tra loro, ha un crepitio. «Sei lì?» chiede Agatha a nessuno, a tutti, al vento. Il vento, per una volta, risponde. Prende un ciuffo di capelli e glielo porta sulla guancia. Lei lo scosta in un gesto che non è della brava vicina. È suo. Rio sente l’urlo che le parte dalla pancia e lo tiene, come si tiene un vaso prezioso.

Allora, per la prima volta, parla. Non ad alta voce, non attraverso il muro. Parla come parlano coloro che hanno condiviso più morti che cene. «Sono qui.» La frase non va lontano; basta che arrivi a due passi. Agatha fa un mezzo giro, come se avesse sentito il rumore del suo nome che cade in una stanza vuota. Gli occhi cercano un difetto nella siepe, un’ombra nella luce. «Chi…?» In quell’interrogativo spezzato c’è tutto. La domanda, la paura di farla, la consapevolezza di star infrangendo un patto che non ha mai firmato. «Non ancora,» risponde Rio, e non sa se lo dice a lei o a se stessa. «Domani.»

La notte, al motel fuori città, Rio ride da sola. È una risata strozzata, ma viva. Si sente patetica e invincibile in parti uguali. Si toglie le scarpe, si getta sul letto, resta vestita, fissa il soffitto maculato. «Sei più testarda di me,» dice al soffitto, immaginando che il soffitto sia una certa strega. «E questa è la tua fortuna.» Gli occhi le si chiudono a singhiozzo. Nel dormiveglia vede una capra che scappa da un bambino che ride, un gallo che non ha il coraggio di attaccare, una città che puzza di disinfettante, un oceano che applaude. E poi una casa piccola, con una cornice storta come dev’essere.

Il terzo giorno torna con un fiore nel taschino. Non è un segnale, è una scaramanzia. Lo ha rubato a una siepe troppo perfetta. Si posiziona dalla parte opposta rispetto a ieri. L’equilibrio, quando vuoi romperlo, va corteggiato, non sfidato. Agatha esce più tardi del solito. Si ferma sul gradino, inspira. Il profumo di rosmarino – residuo dei giochi di Rio – è ancora nell’aria. «Strano,» mormora, forse. Oppure non dice niente e pensa un pensiero con lo stesso suono. I fili scarlatti, che ormai Rio ha imparato a vedere come si vede un difetto in un abito, tremano. Non crollano: tremano. «Ciao, Agnes!» saluta la vicina, in ritardo sulla sua battuta. L’effetto è microscopico e gigantesco. Il copione, sfasato di mezzo respiro, inciampa. E in quell’inciampo Rio infila una parola come si infila un piede nella porta: «Agatha.»

La testa si volta. Non di scatto; di grazia. «Chi ha…?» L’incantesimo accorre, fa l’inserviente zelante, rimette a posto gli oggetti, spegne l’allarme. Rio arretra di un passo. L’aria tra loro si richiude. Ma l’eco resta. I nomi, quando vengono detti bene, lasciano sempre un sapore. Agatha si passa la lingua sul labbro, come se avesse sentito un granello di sale. Rientra in casa. Chiude piano.

«Funziona.» Questa volta Rio lo dice ad alta voce, e l’albero, fedele, annuisce con la sua chioma. Funziona, eppure ogni passo è un abisso: Wanda è un pianoforte chiuso; se lo colpisci male, ti schiaccia le dita. Ma c’è una promessa in fondo alla gola, e la promessa ha il respiro lungo. «Non ti lascerò,» ripete, e la frase, ripetuta, diventa un ponte.

I giorni successivi sono una trama sottile. Rio alterna presenza e sparizione. A volte sta, a volte scompare. A volte lascia una nota musicale che non è una nota, a volte un odore che non è un odore, a volte un pensiero che non è suo ma si comporta come se lo fosse. L’illusione, dapprima infastidita, poi incuriosita, comincia a fare piccoli errori. Un piatto non torna esattamente nel pensile; una lampadina lampeggia quando nessuno la guarda; la radio manda una canzone con due secondi di silenzio nel mezzo. Sono graffi, ma i graffi, col tempo, diventano mappe.

Una sera, quando il cielo ha il colore di una promessa mantenuta a metà, Agatha si ferma di nuovo sul gradino. Non ha fretta. Non ha, soprattutto, la fretta finta che Westview regala a tutti. Rio è dall’altra parte, quasi invisibile. «Sei tu?» chiede Agatha, e questa volta lo dice proprio. Le parole ondeggiano, indecise se essere suono o gesto. Rio inspira. Vorrebbe correre. Vorrebbe posarLe le mani sulle guance e dire “sono sempre stata io”. Invece sceglie la misura esatta. «Sì.» Una sillaba. Buona come il pane quando hai fame vera.

L’incantesimo vibra, offeso. Wanda stringe un attimo, come una madre troppo attenta. I fili si tendono, cercano di zittire le cose. Ma il seme ormai è nella terra. Agatha fa mezzo passo, poi lo nega. «Non posso,» mormora. «Lo so,» risponde Rio. È un dialogo di due battute, e basta a riempire un anno.

La notte, al motel, Rio apre finalmente il taccuino che ha tenuto vuoto per scelta. Scrive tre righe. Non le rilegge. Non vuole che diventino teoria. Poi chiude, spegne, si concede per la prima volta in cinquantasei anni un sonno che non prevede funerali. Nel sogno, Agatha le sussurra all’orecchio parole buone come maledizioni fatte bene. “Non mollare,” dice la voce. “Se molli tu, chi resta?”

Il mattino dopo, Westview è uguale, e tuttavia… il marciapiede ha una crepa che ieri non c’era. La crepa corre proprio davanti alla casa. Non è grossa, ma è ostinata. La vita trova sempre il modo di infilare una riga nella pagina. Rio sorride. Si avvicina, non troppo. Aspetta. Agatha apre. Stavolta non guarda il cielo, non guarda i vicini. Guarda la crepa. E la evita, con un passo laterale che è una dichiarazione. «Ti vedo,» dice Rio senza suono. «Ti vedo mentre ti vedi.»

Segugio sulla pista, sì. Ma anche cane che torna a casa dopo aver fatto cento giri del mondo. L’odore è forte adesso. La traccia non è più un’ombra, è una scia che dà alla testa. Rio stringe i pugni, per non tremare. Sa che da qui in poi sarà più difficile. La magia, quando si sente osservata, diventa permalosa. Wanda, soprattutto, quando si accorge che un millimetro le è sfuggito, prova a prendersi un chilometro. «Vieni pure,» pensa Rio, e non c’è arroganza, c’è soltanto una stanchezza lucida. «Io non gioco a chi urla più forte. Io sto.»

Resta fino a tardi, quella sera, a guardare la casa che inghiotte e risputa gesti. Quando si alza, la voce le esce chiara come una carta messa sul tavolo. «Non ti deluderò, qualunque cosa serva per averti vicina.» Lo dice a lei, lo dice a se stessa, lo dice ai fili e a chi li ha tesi. Poi si volta, e per la prima volta da quando è arrivata, si allontana senza voltarsi indietro. Sa che la pista, ormai, la seguirà. Sa che domani, e il giorno dopo, e quello dopo ancora, troverà piccoli disallineamenti, parole che “non tornano”, colori che fanno capricci. Sa che un giorno — non oggi, non domani – Agatha aprirà la porta non per uscire ma per guardare. E nel guardare, ricordare.

Westview respira, innocua e feroce. La quercia, complice, lascia cadere una foglia proprio dove Rio ha lasciato il piede. Un segno. Un arrivederci. Un promemoria. Rio la raccoglie, la mette in tasca accanto al fiore rubato e a tutte le cose che non ha avuto il coraggio di dire. Poi, piano, scompare dietro l’angolo. La pista è viva. E lei, finalmente, anche.

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