Exoplanet X – L’equipaggio

Le utime dal diario

La lella
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Lella fin da piccola, ho sempre seguito questo motto: "sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo". Credo che la sessualità e l’identità siano elementi soggettivi, tanto che qualsiasi regola non sarebbe mai quella perfetta. Nessuno di noi è solo una cosa e non esiste una definizione che possa andare bene sia per me che per te. A dire il vero, esiste un’etichetta in cui mi sento perfettamente a mio agio ed è proprio l’essere me stessa, perché è fatta su misura per me, racchiude tutto ciò che sono ed è pronta ad accogliere ciò che sarò.

Nessuno dei presenti, quella sera, si aspettava che il segnale avrebbe superato la soglia. La sala dati del Centro di Astrofisica Orbitale aveva una configurazione ridotta, il personale era dimezzato a causa dei lavori di manutenzione nella sezione nord, e le luci di cortesia riducevano la percezione dello spazio, rendendo tutto più compatto e privo di contorni nitidi. Evelyn Hayes, seduta di fronte al monitor principale, leggeva una serie di variazioni nei parametri spettrali senza cambiare espressione. Lo faceva da ore, cercando un pattern che non compariva mai due volte nello stesso modo.

Alle sue spalle, Marcus Langley stava compilando una nota interna per il comitato di revisione. Aveva già controllato due volte la calibrazione del ricevitore e l’analisi delle firme infrarosse. Nulla di anomalo o che giustificasse un’ipotesi eccessiva. Eppure, da trentadue minuti, i dati segnalavano un comportamento regolare nella rifrazione, con un’attenuazione ricorrente ogni quattro virgola otto secondi. Evelyn non commentò, ma posò il dito sullo schermo.

«Rilevazione continua,» disse senza voltarsi.

Jonas Kelvey, tecnico responsabile della diagnostica di rete, si avvicinò con cautela. Teneva gli occhiali in mano, come se il peso stesso di quell’oggetto richiedesse attenzione. «Infrarosso, visibile o modulato?»

«Infrarosso con banda larga e picco spettrale irregolare.» Evelyn fece una pausa, poi aggiunse: «Il picco si allarga ogni ciclo.»

Un grafico iniziò a formarsi sul lato sinistro del monitor. La curva si ripeteva, ma tendeva ad allungarsi nella zona superiore. Marcus avviò il modulo di correlazione con i dati atmosferici preesistenti. I parametri non corrispondevano a nessuno dei profili conosciuti.

«Densità?» chiese Jonas.

«Compatibile con vapore acqueo e composti aromatici. Reazione fotonica instabile, ma non casuale.»

I tre rimasero in silenzio per alcuni secondi. L’unico suono era quello del sistema di ventilazione che manteneva costante la temperatura della sala.

«È una massa liquida,» disse infine Marcus. «Forse un oceano.»

Nessuno rise. Nessuno reagì con entusiasmo. Evelyn aprì un file criptato e avviò la memorizzazione automatica. «Lo sto archiviando,» dichiarò, con la stessa voce usata per chiedere un caffè o chiudere un report.

Quella notte, nessuno lasciò il centro prima dell’alba. I dati vennero confrontati con più di centoquaranta osservazioni precedenti. Non esisteva nulla di simile.

Il giorno dopo, alle 07:10, l’ESA richiese un accesso diretto al file. Evelyn ricevette una chiamata automatizzata da un’unità vocale esterna: «Dottoressa Hayes, è pregata di recarsi alla sede di Ginevra. Il trasporto è stato predisposto.» Nessuna spiegazione. Nessuna opzione di rinvio.

Il nome venne ufficializzato in una nota interna tre giorni dopo: Exoplanet X. Non era un’etichetta scientifica, ma una convenzione temporanea che tutti iniziarono a usare senza discuterne. Si trovava a oltre 300 anni luce, in direzione di Gliese 486. Nessun satellite lo aveva osservato direttamente, solo riflessi, curve di assorbimento e irregolarità termiche. Ma qualcosa, in quel qualcosa, rispondeva.

Nel frattempo, i governi cominciarono a muoversi. Le prime agenzie a interessarsi furono quelle di sicurezza, poi vennero le multinazionali della tecnologia, e infine il consorzio privato-governativo che avrebbe gestito la missione. Nessuna conferenza stampa. Solo una nota di cinque righe trasmessa da una voce sintetica da un satellite a bassa orbita. Evelyn, in quei giorni, smise di dormire. Passava le notti a elaborare modelli. Un’atmosfera respirabile con variazioni nei livelli di composti carboniosi. Superficie stabile. Orbita sincrona. Frequenze radio passive.

Ma era il comportamento fotonico, quello che non si spiegava. Perché la riflessione seguiva un ritmo. E quel ritmo, ogni notte, cambiava leggermente.

La selezione dell’equipaggio durò quattro mesi. La procedura era stata concepita per annullare ogni variabile emotiva. Eppure, qualcuno intervenne con altri criteri. Evelyn lo intuì quando vide il profilo psicologico di Lina Rodriguez. La conosceva solo di nome. Era una pilota di classe 4, specializzata in manovre atmosferiche. Non c’era alcuna ragione per includerla in una missione di osservazione remota. Eppure c’era. Il suo nome era sul dossier, firmato da due responsabili che Evelyn non aveva mai incontrato.

Marcus Langley fu il primo ad accettare. Astrobiologo, con un passato nei progetti sulla terraformazione lunare. Lo seguì Mei Chen, geologa planetaria. Poi Raj Patel, ingegnere dei moduli vettoriali, Emily Turner, biologa marina, Ren Naas, linguista computazionale, e infine i due medici: Jonas Kelvey, già noto a Evelyn, e Alma Visnjic, che veniva dalla sezione medica dei voli a lungo raggio.

La navicella assegnata fu Vega IX. Progettata per missioni modulari, era in grado di operare in autonomia per almeno cinque anni. Non un laboratorio mobile, ma una piattaforma di raccolta dati, con moduli separabili e capacità di atterraggio su superfici instabili.

Il lancio fu programmato senza cerimonie pubbliche. Evelyn lo seppe una settimana prima, tramite un comunicato cifrato. Il giorno della partenza, il personale addetto all’imbarco non superava le venti persone. La base orbitante da cui sarebbe partita Vega IX era silenziosa, priva di segnalazioni esterne.

Durante la fase di pre-risveglio, Evelyn registrò una nota vocale nel sistema della nave. Lo faceva per ogni missione, ma quella volta esitò più a lungo prima di iniziare:

«Data: 14 marzo. Sistema Vega IX. I parametri di decelerazione sono stabili. L’equipaggio è in fase di riattivazione graduale. I segnali di Exoplanet X continuano a seguire lo schema previsto. Non c’è variazione. Nessuna risposta. Nessun errore.» Fece una pausa. «Mi chiedo se saremo pronti. Non a ciò che troveremo. A ciò che non troveremo.»

Il messaggio venne archiviato automaticamente. Evelyn lo cancellò qualche ora dopo.

La nave stava già entrando nella zona di transizione. Fuori, un punto di luce si dilatava lentamente. Nessuna certezza. Nessun margine di errore. Exoplanet X li attendeva.

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