L’anomalia era comparsa per la prima volta durante una sessione di calibrazione secondaria, fra le letture spettroscopiche di un satellite geostazionario in fase di dismissione. Nessuno avrebbe dovuto notare quella variazione. Nessuno, tranne le tre persone rimaste in turno al Centro di Astrofisica Orbitale.
Il segnale veniva da una regione laterale, 319,4 anni luce dalla Terra, in direzione di Gliese 486. La curva della radiazione infrarossa sembrava replicare un comportamento atmosferico instabile. Due settimane dopo, un algoritmo di deep patterning confermava la possibilità di una superficie riflettente in rotazione lenta — cosa insolita, ma non impossibile — con un’alternanza spettrale compatibile con una copertura fluida.
Un oceano.
Non un oceano terrestre, non nella composizione, né nella dinamica. Ma comunque un’enorme distesa di materia liquida, attraversata da variazioni gravitazionali localizzate e da una forma di fotosintesi mai registrata prima.
Fu allora che lo battezzarono: Exoplanet X.
Nomi scientifici ancora in sospeso. Nessuna conferma ufficiale. Solo il nome che i tecnici del progetto si scambiarono nel server interno, insieme a un PDF criptato che riportava una mappa preliminare del corpo celeste.
La notizia non trapelò subito. Non c’erano prove stabili, solo una lunga lista di supposizioni. Il pianeta mostrava una massa compatibile con quella terrestre, un’alternanza termica contenuta, e soprattutto un’anomalia costante nei dati sulla rifrazione atmosferica. I dati grezzi parlavano chiaro, ma non erano facili da spiegare a parole.
Nel giro di tre mesi, l’ESA e la NASA avevano già istituito un protocollo di silenzio operativo e trasferito la gestione a un consorzio misto privato-governativo. La missione venne chiamata Aurora 7-X.
L’obiettivo: non esplorare, non colonizzare, non analizzare. Solo osservare.
Il progetto Exoplanet X, nella sua versione aperta al pubblico, venne annunciato con una conferenza stampa di cinque minuti, tenutasi da una base orbitante temporanea e guidata da una voce generata da intelligenza sintetica. Nessun volto, nessuna immagine, solo un’infografica semplificata e tre parole chiave: acqua, luce, anomalia.
Ma dietro quel file audio c’era un lavoro di mesi, un’operazione fatta con uno staff ridotto all’essenziale. Non solo scelto per le competenze tecniche, ma anche per una combinazione genetica e psico-attitudinale che rendesse possibile missioni di lungo isolamento.
I membri sarebbero partiti in modalità criogenica, con un risveglio graduale durante la fase di decelerazione. Un unico obiettivo: raccogliere dati in loco e trasmetterli, senza alterare minimamente il pianeta.
Quello che nessuno diceva, nemmeno nelle comunicazioni riservate, era che alcuni parametri comportamentali non erano stati scelti a caso. Per esempio: due membri dell’equipaggio non si erano mai incontrati prima, ma i loro profili emotivi erano stati mappati l’uno sull’altro. Oppure: l’atmosfera di Exoplanet X conteneva tracce di composti aromatici instabili, incompatibili con una spiegazione puramente naturale. E, ancora, una delle persone a bordo non era chi diceva di essere.
Ma all’epoca, nessuno ne era a conoscenza. Nemmeno loro.
Il viaggio avrebbe impiegato poco meno di due anni in tempo percepito, ma in realtà più di sei anni relativi. La nave, progettata per disassemblarsi in moduli indipendenti, aveva un laboratorio pressurizzato, due capsule esplorative e una biblioteca cognitiva che conteneva tutta la letteratura terrestre fino al 2191.
L’atterraggio, previsto sulla fascia equatoriale di Exoplanet X, avrebbe avvicinato a una superficie che nessun telescopio aveva mai potuto osservare con chiarezza: un alone grigio-argento, delimitato da un anello di instabilità gravitazionale.
Il primo tentativo era già fallito.
Il secondo aveva prodotto una trasmissione di appena due secondi.
Poi, il silenzio.
Il terzo tentativo sarebbe stato quello definitivo.
A bordo:
- Evelyn Hayes, comandante scientifica.
- Lina Rodriguez, pilota di bordo.
- Marcus Langley, astrobiologo.
- Emily Turner, biologa marina.
- Mei Chen, geologa planetaria.
- Raj Patel, ingegnere aerospaziale.
- Ren Naas, linguista computazionale.
- Un’intelligenza sintetica supervisiona la struttura operativa. Due operatori medici completano il quadro.
Il pianeta li attendeva.
L’equipaggio ➡️