Invece di un bacio: Agatha e Rio sotto la luna di Salem

Le utime dal diario

La lella
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Lella fin da piccola, ho sempre seguito questo motto: "sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo". Credo che la sessualità e l’identità siano elementi soggettivi, tanto che qualsiasi regola non sarebbe mai quella perfetta. Nessuno di noi è solo una cosa e non esiste una definizione che possa andare bene sia per me che per te. A dire il vero, esiste un’etichetta in cui mi sento perfettamente a mio agio ed è proprio l’essere me stessa, perché è fatta su misura per me, racchiude tutto ciò che sono ed è pronta ad accogliere ciò che sarò.

La notte di Westview resta addosso come una polvere sottile: non la vedi, ma la senti fra le dita. Il quartiere addomesticato, le risate in scatola, la cornice che scivola di un millimetro verso sinistra: tutto questo continua a vibrare dentro Rio mentre il tempo, capriccioso, le sfila sotto i piedi e si riavvolge come un nastro. La pista – quella che ha iniziato a seguire come un segugio testardo – non si spezza; semplicemente cambia epoca, cambia luce, cambia odore. E quando il buio la richiama, lo fa parlandole con la voce delle foglie: «Torna dove il nome ha cominciato a essere destino.»

Così siamo a Salem, 1722. Il bosco respira sotto una luna che sanguina piano, come se volesse chiedere scusa per la sua luce e, nello stesso gesto, rivendicarla. L’aria sa di legna, di terra umida, di una preghiera lasciata a metà. La radura è un palcoscenico improvvisato: quercia a fondale, felci come quinte, un coro di insetti che accorda gli strumenti. Qui non ci sono vicine sospettose né vicoli puliti all’eccesso. C’è silenzio, quello vero, che non è assenza di suono ma promessa di ascolto.

Agatha si appoggia al tronco della quercia. Non è un gesto di debolezza: è una dichiarazione di complicità. Il legno la riconosce, le restituisce un po’ di forza che viene da molto più indietro di lei. Trattiene il fiato, e nel battito che le martella nelle orecchie c’è un ritmo antico, quello che precede le rivoluzioni e gli incantesimi riusciti. Davanti a lei, Rio si avvicina. Non cammina: scivola. È la stessa che abbiamo intravisto dietro una tenda di Westview, ma qui non porta il tailleur a protezione; porta la sua natura senza coperta, eppure non fa freddo.

«Agatha.» Il nome esce da Rio come una candela accesa. Non brucia: orienta.

Agatha abbozza un sorriso. «Quindi è qui che mi porti quando vuoi dirmi la verità.»

«È qui che la verità si lascia dire,» risponde Rio, ferma a un passo da lei. Ha gli occhi scuri, profondi, quelli in cui l’ombra è un’informazione, non un’assenza.

Il bosco trattiene il respiro insieme a loro. Agatha si stacca appena dal tronco, inclina il mento. Non è una posa; è un invito. Il momento è sospeso, ma non immobile: scorre con la lentezza delle cose preziose. Agatha alza una mano – le dita tremano, ma per impazienza, non per paura – e a quel punto Rio fa il gesto che nessuna delle due avrebbe creduto di poter fare senza rompersi: le posa due dita sulle labbra.

«Aspetta.»

Il cuore di Agatha perde un colpo, poi ne ritrova due. La confusione le attraversa il volto come un lampo che non trova cielo. «Perché?» La voce è bassa, ma non implora. Chiede di capire, che è poi la forma più cortese di desiderare.

Rio inspira a fondo, lasciando che l’aria le scriva dentro qualcosa di dicibile. «Amare una come me ha un prezzo,» dice, e non c’è lamento nelle sue parole, solo constatazione. «Io sono la Morte. Ma non solo. Sono anche il sospiro finale delle foglie in autunno. Sono il suono che fa la terra quando accoglie – e non è mai un suono triste, solo pieno.» Le sistema una ciocca dietro l’orecchio; poi la mano scivola sulla guancia, e quel tocco, lontanissimo da un bacio, ha già la forza di una promessa.

Agatha ascolta senza interruzioni. Ogni sillaba di Rio le cade addosso come polline: invisibile a occhio nudo, determinante per tutto il resto. «Continua.» Non spinge; apre.

«Quello che tocco può appassire,» mormora Rio. Sorride piano, un sorriso che conosce la malinconia e non per questo la santifica. «Avrei voluto dirtelo prima, ma… il mio bacio non è una promessa di vita. È, spesso, il contrario.»

Il bosco non protesta. Una civetta lancia un suono che somiglia a un cenno. Agatha sospira, prende la mano di Rio e la appoggia sul proprio petto, dove il cuore batte con quel ritmo testardo che le ha sempre salvato la pelle. Chiude gli occhi un istante, non per fuggire ma per meglio trattenere. Quando li riapre ha il sorriso di chi ha trovato la soluzione giusta dopo averne provate dieci sbagliate.

«Se è così,» sussurra, «allora impariamo ad amarci in un altro modo. Il tuo tocco, finché non è sulla mia bocca… non potrebbe essere ispirazione?»

Rio la guarda come si guardano i prodigi che non chiedono spiegazioni. «Sei piena di sorprese, Agatha.» Nelle sue parole c’è una tenerezza nuova, una sporgenza che non graffia, accompagna.

«Ti sottovaluti,» ribatte Agatha, divertita. «Le sorprese le custodisci tu. Io le scarto.»

Le mani trovano un accordo. Agatha le fa scivolare una mano dietro la vita, senza fretta; è un gesto che ha studiato in mille varianti, ma qui non c’è coreografia: c’è cura. Rio accetta, e a sua volta risponde tracciando con le dita una strada sulla pelle dell’altra, una strada senza cartelli ma con tutte le svolte al loro posto. C’è una marea che si alza e si ritira, e per una volta non si schianta: accarezza la riva e la rende nuova.

«Nessun bacio,» dice Agatha, e lo dice a se stessa, come si fissano le regole di un gioco serio.

«Nessun bacio,» conferma Rio, e sorridendo guarda in su. La luna, piena fin quasi alla hybris, li osserva senza invadenza. «Almeno una dea veglia su di noi stanotte.»

«Infatti,» concede Agatha.

Rio aggrotta appena le sopracciglia. «Infatti? Non prenderla in giro.»

Agatha scuote la testa, e nella vibrazione c’è una risata quasi bambina. «Non la prendo in giro. La ringrazio. Stavo solo pensando… la Morte non può permettersi di essere viva, anche solo per un momento?»

Quella frase si infila in Rio come un seme in una fessura di pietra. Non rompe, scardina. Il suo sguardo si fa più chiaro. «Stai attenta a ciò che chiedi,» mormora. Ma il monito non è un freno; è il modo in cui accorda il proprio sì.

Agatha, maliziosa quanto basta a non far male, le fa segno di tornare. «Guardami. Non sto chiedendo a lei,» e solleva il mento verso la luna, «sto chiedendo a te, amore mio.»

Il mondo, intorno, non smette di essere mondo: fruscii, un ramoscello che cede sotto il passo di un animale, un profumo lontano di resina. Nel centro, però, tutto si semplifica. Rio arretra un mezzo passo, non per fuga ma per darsi slancio. Poi, con una calma che sa di impeto addomesticato, scioglie i lacci della camicia. Il tessuto scivola con un sussurro – la stoffa riconosce sempre il proprio destino – e cade ai suoi piedi. Sulla pelle di Rio si disegnano venature scure, come radici sotto un terreno sottile. Non sono cicatrici; sono geografie. Il vento fresco le passeggia addosso, e lei chiude gli occhi per un secondo: non per pudore, per memoria.

Agatha non chiede il permesso: lo onora. Le mani si fanno strada sotto il bordo della camicia rimasta a metà – un confine che non è confine ma invito – e lì trovano un freddo che non respinge. È un freddo vivo, come quello dell’acqua di fonte. «Sei ghiaccio e febbre,» mormora, lasciando che la pelle le insegni i suoi alfabeti.

Rio, che di solito sa come si governa un addio e come si raddrizza una tempesta, trema per un tocco. È un tremito piccolo, un battito d’ali, ma sposta aria. Una lacrima, discreta come un segreto ben custodito, le scende dall’angolo dell’occhio. Agatha la vede e finge di non vederla: non per indifferenza, per rispetto. Capisce che quella goccia non chiede consolazione ma casa.

«Che aspetti, Rio?» le sfugge, e nella domanda c’è una miccia – non di fretta, di desiderio.

«Non essere impetuosa Agatha,» sorride lei, riaprendo gli occhi. «Abbiamo tutto il tempo del mondo. E per questa notte, almeno una dea ci guarderà benevola.»

«Ne prendo nota,» ride piano Agatha. «Poi però la ringrazi tu. Io ho già un rapporto complicato con la burocrazia celeste.»

La luna non risponde, o forse sì, ma con il linguaggio delle ombre: allunga la loro sul tappeto di felci. Sembra un lenzuolo, e fa venire voglia di dormirci sopra a parole finite.

Il tocco rifiuta la fretta. Non c’è consumo, c’è costruzione. Agatha disegna cerchi lenti, di quelli che mettono al mondo vortici; Rio risponde con linee rette che non conducono mai a una collisione, sempre a un approdo. Le dita di Agatha, abituate alla precisione dei sigilli, imparano la precisione dell’accoglienza. Le dita di Rio, avvezze a chiudere, scoprono l’arte di aprire. È un respiro a due voci, e non somiglia a nessuna delle musiche che abbiamo sentito a Berlino: qui nessuno stona, perché nessuno deve avere ragione per forza.

«Promettimi una cosa,» dice Rio, con un filo di voce che non ha paura di essere lieve.

«Solo una?»

«Promettimi che, se ti farò paura, me lo dirai. Non per fermarmi; per tenermi umana.»

Agatha si ferma un istante, poi le prende il volto fra le mani – senza toccare la bocca, come si sono giurate – e lo avvicina quanto basta a leggere il riflesso della luna nelle pupille. «Ti ho incontrata dove nessuno osa restare. Se mi fai paura, sarà della paura appropriata. Quella che sveglia. Te lo dirò. E tu farai lo stesso con me.»

«Affare fatto,» annuisce Rio. «Siamo due negoziatrici temibili.»

«E pessime romantiche,» conclude Agatha, e le scappa un sorriso che ha già salvato almeno tre ere geologiche.

Il bosco partecipa, non intralcia. Un riccio passa, si ferma, decide che l’amore, in definitiva, non è affar suo, e prosegue. Le radici sotto i piedi vibrano come corde pizzicate. La luna, generosa, regala un grado in più di luce.

Agatha torna al linguaggio che le riesce meglio: la curiosità. «Dimmi com’è,» chiede. «Dentro. Quando tocchi e temi di far appassire.»

Rio non fugge la domanda. Non la ingentilisce. «È come avere tra le mani una rosa con il gambo lungo: la porti con cura, la proteggi dalle correnti, ma sai che ogni contatto è una scelta. Ogni petalo che cade, se cade, lo tieni sul palmo finché non ti pesa. Poi lo restituisci alla terra. Io sono quella restituzione. Ma stasera mi concedo di essere anche la mano che regge, non solo quella che lascia andare.»

Agatha accarezza la linea delle clavicole come si seguono i confini su una mappa che porta al tesoro. «Allora facciamo così: io raccolgo, tu reggi. Se qualche petalo cade, lo conserveremo fra le pagine del tempo, come si faceva nei libri che nessuno prestava mai.»

«Ti amo quando parli come se stessi saccheggiando una biblioteca,» sospira Rio.

«E io ti amo quando mi permetti di farlo.»

Le ore si dilatano, o forse sono minuti ostinati a farsi credere eterni. Non importa. Nessuno qui impugna un orologio. Ci sono pause che non sono interruzioni, solo respiri più larghi. Ogni volta che una mano si ferma, è per ascoltare l’altra. Ogni volta che l’altra avanza, lo fa avvisando. Sotto il divieto del bacio – che non è censura ma intelligenza – nasce una grammatica nuova. Scoprono verbi che non avevano mai coniugato: sfiorarsi, custodirsi, accordarsi. Scoprono che anche i sostantivi possono cambiare peso: pelle, respiro, tremito, nuca, polso. Scoprono che gli aggettivi, se scelti bene, fanno da chiave: lieve, caldo, vivo, intero.

A un certo punto, Agatha ride piano. «Sai che c’è? Mi sento più viva così che in mille baci sbagliati.»

«La vita è spesso un fraintendimento ben riuscito,» risponde Rio. «Questa sera, però, la capiamo.»

«Sfacciata.»

«Professionale.»

Si guardano, e in quello scambio lanciano un ponte verso tutte le versioni di loro stesse che verranno. Il sangue della luna diventa rosato, il bosco abbassa il volume, la notte trova la sua cerniera.

«Parlami di Westview,» chiede Rio, quasi per gioco, ma di quel gioco serio che lega i tempi. «Del tuo passo che finge e non finge. Della tua cornice ostinata.»

Agatha inclina la testa. «Mi guardavi?»

«Sempre.»

«Lo so,» dice lei, e lo dice come si riconosce un profumo nella stanza accanto. «Westview è un palco ben costruito. Le battute arrivano precise, le risate pure. Ma c’è sempre un chiodo che spunta dal pavimento, uno spigolo, un vetro sporco. Mi ci specchiavo. Ogni mattina, fra un “buongiorno” e un “passa lo zucchero”, sentivo un grammo di te. Una dissonanza piccola. Adesso so che era una chiamata.»

«Non potevo fare di più,» confessa Rio. «Non ancora.»

«Hai fatto quanto bastava. Mi hai concesso di ricordare che non bisogna sempre rompere l’incantesimo: a volte bisogna stancarlo.»

«E tu lo stancherai?»

«Io lo farò venire a noia a se stesso,» risponde Agatha, e c’è una luce feroce, antica, nei suoi occhi. «Lo obbligherò a sbadigliare. Poi uscirò a prendere aria. Se ti va, mi aspetti dietro l’angolo.»

«Ti aspetto nel punto esatto in cui la tua ombra sarà più testarda,» promette Rio.

Tacciono di nuovo, ma stavolta il silenzio non le separa, anzi, le unisce. La tentazione del bacio – quella vecchia sirena che promette scorciatoie – si avvicina, ci gira intorno, poi si allontana. Non serve. Hanno scoperto che esistono vie più lunghe e, proprio per questo, più loro.

«Agatha.»

«Sì.»

«Posso chiedere qualcosa che non è un bacio, ma che ci assomiglia?»

«Fammi vedere.»

«Posso appoggiare la fronte alla tua?»

La domanda è così semplice da fare male. Agatha fa un passo, Rio un mezzo, e le loro fronti si incontrano come due verità che, per un secondo, non hanno bisogno di prova. È un contatto che non colonizza, non invade, non chiede. È un tempio improvvisato con il gesto più antico del mondo.

«Grazie,» sussurra Rio, e non si capisce se ringrazia lei, il bosco, la luna, o tutte le cose che hanno deciso di essere possibili.

«Grazie a te,» risponde Agatha. «Per avermi ricordato che ci sono strade anche quando il ponte è crollato.»

Si separano appena, giusto il necessario per potersi guardare senza confondersi. La camicia di Rio è ancora a terra; Agatha la raccoglie, la ripiega con quella meticolosità da strega che non è mania, è rispetto per le stoffe. Gliela porge. «Non vorrei che la dea prendesse freddo solo a guardarti.»

«Invidiosa.»

«Realista.»

La notte comincia a cedere sul bordo orientale. Non è ancora alba, ma la possibilità di un mattino fa capolino. Rio infila la camicia, abbottona senza fretta. Ogni bottone è un sigillo che non chiude, conserva. Agatha sistema un lembo, poi ritrae le dita come chi sa di dover tenere fede a un patto.

«Torneremo qui?» chiede Rio.

«Sempre che la luna non si offenda.»

«La luna si offende quando non la guardi. Noi la guardiamo. E la ringraziamo senza prenderla troppo sul serio.»

«Ottima politica celeste.»

Restano un momento così, a ridere piano come se fosse pericoloso farlo forte. Non lo è. È solo un modo per allungare la notte di un altro respiro.

«Dobbiamo ancora imparare molte cose,» dice Rio, tornando seria senza perdere luce. «Ad esempio: come si tiene la linea fra vivere e lasciar vivere, fra trattenere e restituire.»

«Non c’è linea,» risponde Agatha. «C’è una danza. Quando inciampiamo, ridiamo. Quando ci viene bene, non lo diciamo a nessuno. Così nessuno prova a insegnarcela.»

«Sei terribile.»

«Sono tua.»

Il bosco, che ormai si è affezionato, manda un fruscio che sembra un applauso cortese. La luna scivola dietro un velo di nuvola, come per concedere un congedo elegante. Non c’è un addio; c’è un “a dopo” ben piazzato.

Prima di separarsi, Agatha prende la mano di Rio e ci appoggia la guancia. Non è un bacio. È, come promesso, il suo posto al mondo. «Quando tornerò a Westview,» dice piano, «vieni a trovarmi dove il copione sbaglia. Lì ti sentirò.»

«Porterò un errore in tasca,» promette Rio. «Uno di quelli piccoli che, se ripetuti, fanno storia.»

«Una cornice storta.»

«Un jingle in ritardo.»

«Una foglia caduta a luglio.»

«Un respiro in più.»

Si sorridono una volta ancora. Poi Rio indietreggia di due passi, il bosco la riprende come se fosse stata prestata. Agatha resta sotto la quercia, le dita sul nodo invisibile che le stringe il cuore e lo tiene in forma.

Quando la radura si svuota, la luna – che ha smesso di sanguinare – lascia uno specchio di luce sulle foglie. Agatha lo guarda e pensa che a volte la vita si presenta con parole gigantesche – morte, destino, salvezza – ma si fa capire con gesti minuscoli: una fronte sulla fronte, una camicia ripiegata bene, una regola accettata non per paura ma per intelligenza.

Torna verso il sentiero. Non affretta il passo. Sa che l’attende una città che finge di essere la stessa tutti i giorni, sa che – al di là del tempo – ci sono vicine da salutare e cornici da spostare. Sa che la tentazione del bacio tornerà a bussare come una venditrice porta a porta particolarmente insistente. E sa anche che adesso possiede un modo nuovo di rispondere: con un tocco che non consuma, con una promessa che non pretende, con un «invece di un bacio» che non è rinuncia ma invenzione.

Sul bordo del bosco, si ferma un attimo e parla a voce bassa, ché certe cose è bene dirle all’aria prima che alle persone. «Rio,» mormora, «se sei Morte e anche foglia che cade, io sarò terra che accoglie e vento che solleva. E se la tua bocca è confine, le mie mani saranno continente. Ci ritroviamo dove il mondo fa una piega.» La notte, che ormai sa da che parte stare, le rimanda l’eco. Agatha sorride. Non ha vinto niente, ma ha capito come si gioca. E questo, per una strega come lei, è sempre l’inizio di tutto.

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