La vita di Adele, il mal d’amore

Le utime dal diario

La lella
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Lella fin da piccola, ho sempre seguito questo motto: "sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo". Credo che la sessualità e l’identità siano elementi soggettivi, tanto che qualsiasi regola non sarebbe mai quella perfetta. Nessuno di noi è solo una cosa e non esiste una definizione che possa andare bene sia per me che per te. A dire il vero, esiste un’etichetta in cui mi sento perfettamente a mio agio ed è proprio l’essere me stessa, perché è fatta su misura per me, racchiude tutto ciò che sono ed è pronta ad accogliere ciò che sarò.

La vita di Adele – Capitoli 1 & 2 (La vie d’Adèle: Chapitres 1 & 2) è un film del 2013 diretto da Abdellatif Kechiche, adattamento cinematografico del romanzo a fumetti Il blu è un colore caldo di Julie Maroh.

Il film si è aggiudicato la Palma d’oro al Festival di Cannes 2013.

Trama

Tra Adele (una liceale francese) ed Emma (una ragazza dai vistosi e appariscenti capelli blu) inizia un’appassionata relazione sentimentale che sfocia in un rapporto di convivenza. Le amicizie di Emma sono colte ed estrose e (per questo motivo) comincia a sentirsi a disagio con Adele, considerandola priva di ambizioni. Adele, pur amando Emma, cede al corteggiamento di un collega di lavoro: la loro storia si interrompe bruscamente. Le vite delle due ragazze si separano proseguendo per alcuni anni senza incontri. Il mal d’amore sofferto da Adele è tristemente intenso. I due ultimi, disperati, tentativi di Adele (da allora rimasta single) di riallacciare il rapporto sentimentale con Emma (che al contrario ha cominciato una nuova relazione con un’altra donna) non vanno a buon fine.

La persistenza dell’azzurro

La vita di Adele non fa parte di quei film la cui grandezza si manifesta immediatamente. Piuttosto, ruvido e impietoso, induce a scostarsi, quasi a evitare un’indefinita contaminazione. Se dapprima sgomenta e respinge, s’immerge tuttavia nel fiume carsico della memoria, per riaffiorare ciclicamente, con un’inaspettata potenza ipnotica.

Il nucleo della storia è il corpo con la sua luce ossessiva, pasoliniana. Il tribadismo sfrenato dell’incontro erotico fra Emma e Adèle, durante il quale la consistenza materica del gesto e delle membra trascende il concetto stesso di amore (e forse di piacere), rimanda paradossalmente al livido, laico martirio di Ettore – il ragazzo protagonista di Mamma Roma – sul lettino di contenzione del carcere, mutuato dal Cristo di Mantegna, così fragile e umano, spogliato persino della possibilità di risorgere. Perché ricerca e dissoluzione dell’estasi, passione e meticolosa sfrontatezza di pratiche e dettagli carnali che precludono il passaggio successivo verso la trasfigurazione, vivono e muoiono nell’incrociarsi casuale e transitorio di sguardi, destini e desideri, nell’immanenza invalicabile dei corpi.

Kechiche svela la caducità dell’illusione amorosa nonostante la prevalenza iniziale degli istinti, cucendo, punto dopo punto, il sudario con cui avvolge i meccanismi relazionali che via via uniscono e separano le due ragazze. Mostra senza indulgenze come, perfino nell’attrazione irresistibile che un corpo esercita sull’altro, si aprano un varco canoni e stereotipi interiorizzati.

Nell’ottava elegia duinese di Rilke leggiamo che “il libero animale va in eterno, come vanno le fonti”. Ma nessun essere umano è libero da se stesso. Non Emma, pretestuosamente gelosa e caparbia, quasi scorbutica, nel suo inseguire uno stile di vita intellettuale affettato, nella ricerca “à la Balzac” di un ruolo significativo nel mondo artistico e di una compagna di vita più consona, più “presentabile”, anche se sessualmente meno affine.

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